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In Burundi tornano a parlare le armi?
1 giugno 2011
Il Burundi è sull’orlo di una nuova guerra civile? L’attentato che il 28 maggio ha fatto cinque vittime e numerosi feriti nella capitale Bujumbura rischia di far ripiombare il Paese nel baratro dello scontro interetnico? L’attentato di per sé non sarebbe sufficiente a riaccendere il fuoco della rivolta se non si inserisse in una scia di violenze che, a partire dalla lunga tornata elettorale (presidenziali, politiche e amministrative) dello scorso anno, ha portato a un deterioramento del clima di convivenza che si era creato a partire dalla fine della guerra nel 2003.

Il Burundi è un piccolo Paese dell’Africa centrale (meno di un decimo dell'Italia, 10 milioni di abitanti). Protettorato belga, è diventato indipendente nel 1962. Fin dall’indipendenza, è stato governato da una classe dirigente egemonizzata dalla minoranza tutsi (15% della popolazione contro l’85% di hutu). Ciò ha causato rivolte e massacri a sfondo etnico (1964, 1972 e 1988).

Il 1993 è un anno di svolta. Per la prima volta si tengono elezioni libere, vinte a grande maggioranza dalle formazioni hutu. Melchior Ndadaye diventa così il primo presidente hutu del Paese. Ma, solo tre mesi dopo, il neo presidente viene assassinato e iniziano i massacri che, nell’arco di una decina di anni, causeranno 300mila morti e un milione tra sfollati e rifugiati. Solo alla fine del 2003, con gli accordi di Pretoria, arriva un primo cessate-il-fuoco. Le milizie hutu e l’esercito nazionale (egemonizzato dai tutsi) depongono le armi. Solo un piccolo gruppo di ribelli hutu (Fronte di liberazione nazionale) continua la lotta, ma nel 2008 anch’esso depone le armi.

Le elezioni presidenziali, politiche e amministrative che si sono tenute lo scorso anno avrebbero dovuto sancire la definitiva svolta democratica del Paese. «In realtà - spiega a Popoli.info un operatore italiano di una Ong da anni impegnata in Burundi -, così non è stato. L’ampia vittoria conseguita nelle elezioni amministrative dal partito di governo, il Cbdd-Fdd (Consiglio nazionale per la difesa della democrazia - Forze per la difesa della democrazia), è stata, secondo i partiti di opposizione macchiata da “gravi irregolarità”. Ciò ha fatto sì che gli stessi partiti di opposizione boicottassero sia le elezioni presidenziali sia quelle politiche. La riconferma di Pierre Nkurunziza è stata quindi scontata ma, nel frattempo, sono aumentate tensioni e violenze».

Il governo ha archiviato queste violenze come un fenomeno di «criminalità comune». Amnesty International, nel suo rapporto sul Burundi del 2011, ha però puntato il dito sulle milizie di giovani legate al partito di governo e responsabili di violenze continue sugli oppositori. Dure accuse da parte di Amnesty anche ai servizi segreti burundesi che ricorrerebbero in modo sempre più frequente alla tortura. «Di fronte a questa “violenza di Stato” - continua l’operatore italiano - alcuni ex ribelli avrebbero preso in mano le armi contro il governo. Per il momento sarebbero solo piccole azioni, anche se sanguinose. Ma il rischio è che ci sia una escalation e la situazione precipiti».

Questa analisi non convince del tutto Angelo Inzoli, ricercatore di Scienze Sociali e Politiche all’Università cattolica di Lovanio (Ucl, Belgio) e profondo conoscitore del Burundi. «La realtà è più complessa di quanto appare. Molti ex ribelli hanno tenuto le armi anche dopo la fine delle ostilità. Normalmente le utilizzano per compiere reati comuni, ma talvolta le usano per fini politici. Alcuni leader politici ordinano a questi ex miliziani azioni violente per fare pressioni sul governo. C’è, insomma, una “zona grigia” in cui interagiscono criminalità, politica ed ex guerriglieri. Le azioni violente sono aumentate, ma non credo che il Paese piomberà in una nuova guerra civile. La gente comune non vuole più la guerra. Ne ha avuto abbastanza di violenze, distruzioni, morti. Chiede solo di poter vivere in pace. Il vero rischio invece è che la democrazia diventi una scatola vuota, una struttura formale. Questo sarebbe grave per il Paese e per la sua popolazione».
Enrico Casale
© FCSF – Popoli