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L'Evangelii Gaudium e quell'indispensabile insegnamento
27 novembre

Un grammatico rigoroso potrebbe argomentare che il titolo della prima esortazione apostolica di papa Francesco, Evangelii Gaudium, destinata ai vescovi ai presbiteri e ai diaconi, alle persone consacrate e ai fedeli laici, contenga una ripetizione o, in termini più precisi, un pleonasmo. Infatti, la parola di origine greca «vangelo» significa: «bella notizia», quindi un messaggio che già in sé ha un riferimento alla felicità, al gaudio, per quanto riferisce.

Tuttavia, è esperienza frequente che questo termine non evochi né in chi lo ascolta né in chi lo dice, l’esperienza della gioia. Quando poi, ad esso si aggrega l’attività di evangelizzare, ovvero la parola «missione», in molti si scatena un incontenibile fastidio: perché esso evoca la sciagurata storia di violenze e abusi che, in nome del Vangelo, sono stati per tanti secoli perpetrati.

Era allora necessario, anzi indispensabile, che il Papa stesso intervenisse spiegando cosa davvero è l’evento dell’incarnazione, passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo, ovvero, la bella notizia che il Vangelo racconta. Indispensabile, innanzitutto, per i cristiani: perché il loro presente e futuro dipende proprio da quanto la loro vita sarà autenticamente portatrice di gioia nella vita di tutte le persone che incontreranno.

Inoltre, il Pontefice non poteva limitarsi a qualche breve nota. Non perché Francesco non abbia capacità di sintesi comunicativa, ma perché è su molti aspetti della loro stessa fede che i cristiani vanno catechizzati.

«Catechesi» è un’altra parola da tempo fraintesa. Spesso la si confonde con istruzione, ovvero: con la trasmissione di insegnamenti, nozioni, informazioni che edificano la costruzione di un insieme organico di conoscenze. Ma, oltre a non essere questo, catechesi non è nemmeno educazione. Non si tratta, infatti, di far emergere e portare a compimento le potenzialità insite negli individui. In realtà, questa parola così ricorrente nel vocabolario cristiano, significa «far risuonare dall’alto e provocare un'eco dal basso».

L’evangelizzazione, che comunica il messaggio cristiano della Parola di Dio, è catechetica quando vuole trasmettere e generare un sussulto di gioia.

Questo, allora, richiama un altro termine fondamentale: testimonianza. Sappiamo che il testimone, in greco, è detto: martire. È una persona che ha fatto un’esperienza di così grande e radicale gioia, da non essere più intimorito da nulla e da nessuno, nemmeno dalla morte e da chi la propaga. Quest’esperienza è la Bella Notizia che c’è un Dio di misericordia, il quale ama l’umanità e continuamente opera affinché la Sua gioia sia in noi e la nostra gioia sia piena (cfr. Gv 15, 11). Il martire non è un fanatico invasato da chissà quale impeto, arrogantemente ed erroneamente ritenuto divino, che semina terrore e miete devastazione. Al contrario: è il mite, umile e coraggioso contadino che, pazientemente e incessantemente, custodisce e coltiva quel giardino prezioso creato da Dio.

Papa Francesco con questa esortazione invita alla lieta testimonianza. Ci chiediamo: come si realizza? Attraverso buone pratiche di vita: il servizio (diakonìa) e la comunione (koinonìa). Il servizio, ad esempio, è costruire percorsi che consentano la giustizia di Dio al servizio dell’umanità. «Il nostro impegno per la giustizia sociale e per lo sviluppo umano deve concentrarsi sulla trasformazione dei valori culturali che sorreggono un ordine sociale ingiusto e oppressivo», dicono i gesuiti nella loro 34esima Congregazione Generale. Avere l’audacia di elaborare cammini di giustizia. La Chiesa deve essere l’incarnazione del pandokeion/pandokeus: il «tutti accoglie» presso il quale il Buon Samaritano conduce l’umanità sofferente che Lui, il Signore incarnato, ha già soccorso.

Comunione, tra le tante cose, significa anche incontrare, conoscere, promuovere salvaguardare le culture e le tradizioni.
La Chiesa - ribadisce la Evangelii Gaudium - deve essere luogo di comunione, ovvero: segno e strumento di riconciliazione fra i popoli, attraverso il rispetto di ogni differenza. Ciò deve partire dalle loro culture e valori, spesso basati su una ricca e fruttuosa tradizione. «È indispensabile - dicono sempre i gesuiti del loro modo di procedere - una nuova e costante inculturazione della fede affinché il messaggio del Vangelo giunga all’uomo contemporaneo con le sue variegate forme odierne di cultura. La globalizzazione reale rende il mondo una sola famiglia; le categorie di missione, terzo mondo, oriente e occidente sono ormai inadeguate ad esprimere la situazione attuale».

La gioiosa testimonianza dei cristiani, pronti al dialogo e alla condivisione di doni, promuove la profonda conversione a Cristo. Il dialogo interreligioso non è una possibilità, ma un’inesorabile via del annuncio evangelico. Per i cristiani è necessario che entrino in relazione positiva con i credenti di altre religioni, perché essi sono i loro prossimi.

Allora, evangelizzare vuol dire in-stradarsi (eís-odos) con umiltà nella vita e nella cultura altrui es-tradandosi (éx-odos) con coraggio dal proprio mondo. È la «Chiesa in uscita» che dà il titolo a un paragrafo della Esortazione.

Come è possibile, ci chiediamo ancora, attuare queste buone pratiche di vita? Papa Francesco ribadisce che la forza viene dalla relazione personale e comunitaria con Dio, ovvero la preghiera. Si è veramente e gioiosamente attivi solo nella misura in cui si è personalmente e comunitariamente contemplativi.

Davide Magni SJ
della redazione di Popoli

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