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L'ultimo editoriale del direttore di Popoli: "Una finestra che non si chiude"
22/12/2014
Pubblichiamo l'editoriale del numero di dicembre di Popoli, l'ultimo prima della chiusura della rivista (cartacea e online) annunciata lo scorso ottobre. L'editoriale è firmato da Stefano Femminis, direttore responsabile dal 2006.


Questo editoriale l’ho scritto decine di volte nella mia mente, da quando ho saputo che la rivista nella quale ho lavorato per 14 anni e che ho diretto dal 2006 avrebbe terminato le pubblicazioni. E in ogni «stesura» mentale emergevano nuove cose da dire, nuove riflessioni da sviluppare, nuovi ringraziamenti da fare. Ora, arrivati al dunque, è davvero difficile scegliere cosa mettere nero su bianco nelle poche righe a disposizione. Pur consapevole di questo limite, vorrei provare a rispondere brevemente a due domande: perché Popoli chiude? Perché non muore?

Perché Popoli chiude? Nel numero di ottobre padre Giacomo Costa, presidente della Fondazione Culturale San Fedele, che è l’editore «diretto» della rivista - mentre la Provincia italiana della Compagnia di Gesù è in qualche modo l’editore «ultimo» -, ha spiegato le motivazioni essenziali: da un lato un deficit economico ritenuto non più sostenibile, dall’altro «la necessità per i gesuiti italiani di ottimizzare le forze e di stabilire delle priorità nelle opere in cui sono coinvolti».

A queste motivazioni vorrei aggiungere ciò che ho capito in questi anni, e che forse può essere di qualche interesse e utilità per altri. Credo che oggi, dentro la crisi profonda dell’editoria italiana, un periodico possa sopravvivere se sceglie con decisione una delle seguenti due strade: la prima consiste nell’essere la rivista di riferimento di una rete, di un insieme di enti, associazioni, persone che si riconoscono in una comune appartenenza e che quindi sostengono e «assumono» quella testata come propria, quasi a prescindere dalla sua qualità: perché vi si identificano, perché leggere o almeno acquistare quella rivista è un gesto quasi di «militanza». La seconda strada è puntare tutto sulla qualità, chiedere al lettore di essere comprati e letti per nessun altro motivo che non sia la forza dei propri contenuti, la cura del prodotto, l’originalità dell’offerta informativa. 

Ebbene, per Popoli la prima strada è stata sbarrata dalle resistenze che ha incontrato il progetto di una maggiore sinergia editoriale tra varie opere e associazioni che fanno riferimento ai gesuiti italiani. Nel cercare di percorrere la seconda strada, ci si è scontrati con un limite insuperabile: per «stare sul mercato» oggi occorre investire in modo adeguato non solo sulla qualità del prodotto (cosa che è stata fatta dall’editore, con grande coraggio), ma anche su promozione, marketing, comunicazione... E questo è ovviamente molto difficile per un piccolo editore. 

Uno dei miei predecessori alla direzione della rivista ripeteva spesso una sorta di mantra: «Se un prodotto è di qualità, si vende da solo». Forse era vero anni fa, oggi non più, tanto meno nell’ambito editoriale. O perlomeno è vero solo in parte: i 2.200 nuovi abbonati degli ultimi 5 anni, «conquistati» uno a uno grazie al passaparola in cui anche molti di voi lettori ci hanno aiutato, sono un numero che ha del miracoloso, ma che resta insufficiente.

Dunque Popoli non ha saputo o potuto prendere con risolutezza nessuna delle due strade menzionate. A me pare, però, che non sia solo un problema di Popoli, ma che in questo dilemma oggi si dibatta molta parte dell’editoria che non ha alle spalle grandi gruppi industriali o finanziari (e anche quella peraltro ha i suoi problemi), in particolare l’editoria cattolica, e ancora più in particolare la cosiddetta «stampa missionaria». Ci sono riviste che ad esempio si trasformano in strumenti di fundraising (una variante della prima strada), ma rinunciano in tutto o in parte alla qualità, diventando di fatto house organ di ordini religiosi o Ong; e ci sono riviste che continuano a lavorare sulla qualità, ma che scompaiono nel mare magnum mediatico, non avendo i mezzi per ottenere quella visibilità che fa rima con sostenibilità. 

La soluzione più logica sarebbe unire le forze, creare alleanze, fare massa critica, ma ognuno continua orgogliosamente a ritenersi autosufficiente.

Poi, naturalmente, hanno giocato anche molti altri fattori: la crisi economica che spinge a tagliare le spese superflue; il considerare spese superflue quelle per l’informazione e la cultura, convinzione frutto di un trentennale lavaggio del cervello televisivo; il doversi rivolgere a una popolazione che è stabilmente agli ultimi posti in Europa per lettura di giornali e libri; un servizio postale monopolistico che ha quadruplicato le tariffe in pochi anni ma ha peggiorato costantemente la propria efficienza (è incredibile quanti lettori ci hanno scritto sconsolati: «Mi spiace non abbonarmi più, ma se ricevo un numero sì e uno no, non ne vale la pena»); l’evoluzione ancora difficile da decifrare del mondo digitale, che offre grandi potenzialità (e Popoli ha cercato di sfruttarne alcune), ma che non porta immediatamente ricavi (oggi moltissimi cercano l’informazione in rete e non sulla carta, ma pochissimi sono disposti a pagarla); e non da ultimo, il momento delicato in cui si trova la Compagnia di Gesù italiana e la necessità di razionalizzare le forze.

Allora perché Popoli non muore? Anzitutto perché ciò che di buono abbiamo seminato in questi anni rimane e continuerà a operare. Dal gennaio 2007, mese della radicale riforma grafica ed editoriale della rivista, abbiamo pubblicato più di 6mila pagine, con migliaia di reportage, inchieste, testimonianze, commenti, analisi; mentre sul sito rinnovato sono arrivate in quattro anni quasi 200mila persone diverse e sono state visualizzate oltre 700mila pagine. 
Tutti contenuti selezionati secondo un unico criterio: raccontare come la missione e l’annuncio del Vangelo oggi si intrecciano con la promozione della giustizia, l’evangelizzazione delle culture, il dialogo tra le fedi (lo sottolinea anche il Padre Generale dei gesuiti nella sua affettuosa lettera). 

E poiché questa linea editoriale non è certo un’esclusiva di Popoli, ma guida molte opere della Compagnia di Gesù, ribadisco l’invito a continuare a restare in contatto con quelle realtà dei gesuiti che, seppure con linguaggi e modalità in parte diversi, perseguono gli identici obiettivi: in particolare Aggiornamenti Sociali e la Fondazione Culturale San Fedele (con cui tra l’altro continuerò personalmente a collaborare), la Fondazione Carlo Maria Martini e il Magis. 

Molti lettori in questi anni hanno definito Popoli una «finestra aperta sul mondo». Ebbene, sappiate che, nella stessa casa, anche se magari in locali arredati in modi un po’ diversi, potrete trovare altre finestre che vi offriranno il medesimo, ampio panorama.

Termino con una considerazione più personale. Popoli non muore perché non muoiono, e mai lo faranno, le relazioni costruite in questi anni con tanti lettori e collaboratori. Per quanto riguarda i primi, i numerosissimi messaggi arrivati in queste settimane danno un’idea eloquente del rapporto che si è creato. Quanto ai secondi è davvero impossibile per motivi di spazio nominare uno a uno i tanti, gesuiti e non, uomini e donne, che hanno arricchito la rivista (e il sottoscritto) con la loro competenza e amicizia. 

Ne cito allora uno per tutti, sicuro che gli altri non si offenderanno: dopo avere ricordato Paolo Dall’Oglio nel numero di novembre, ci tengo qui a ringraziare Silvano Fausti, che ha accompagnato Popoli per otto anni con un affetto, una costanza e uno spirito di servizio che non dimenticherò. È stato proprio padre Silvano a farmi recentemente il dono di una poesia di Fernando Pessoa che non conoscevo. 

E io la regalo a voi: «Di tutto restano tre cose: la certezza che stiamo sempre iniziando, la certezza che abbiamo bisogno di continuare, la certezza che saremo interrotti prima di finire. Pertanto, dobbiamo fare dell’interruzione un nuovo cammino, della caduta un passo di danza, della paura una scala, del sogno un ponte, del bisogno un incontro».

Stefano Femminis
Direttore di Popoli
© FCSF – Popoli