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La profezia perduta e lo «scisma silenzioso»
20 febbraio 2013
Padre João Batista Libanio, 80 anni, gesuita brasiliano, è stato direttore di studi del Pontificio Collegio Pio Brasiliano di Roma durante il Concilio Vaticano II. Attualmente è docente alla facoltà gesuita di Filosofia e Teologia di Belo Horizonte e membro del Comitato di etica nella ricerca dell’Università federale del Minas Gerais. Tra i più noti teologi della liberazione, è stato tra i relatori al Congresso continentale di Teologia svoltosi a São Leopoldo dal 7 all’11 ottobre 2012. In quell’occasione Popoli lo ha intervistato.

Come riassumerebbe l’itinerario della Chiesa latinoamericana dal Vaticano II a oggi?
Negli anni ’70 la Chiesa latinoamericana appariva più progressista di quanto fosse effettivamente, perché le decisioni prese nella Conferenza dell’episcopato latinoamericano di Medellín, nel 1968, ovvero l’opzione per i poveri, le Comunità ecclesiali di base e la liberazione integrale, erano state messe in pratica solo in parte. A Puebla, nel 1979, emerse un’immagine più realista, con una reazione dei conservatori, i quali, per esempio, aggiunsero alla «opzione per i poveri» vari aggettivi - non esclusiva, non escludente, preferenziale - per indebolirla. A ciò contribuì soprattutto il Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), sotto la segreteria del cardinale Alfonso López Trujillo, e poi la nuova generazione di vescovi consacrati da Giovanni Paolo II: tranne eccezioni, erano persone con poca visione sul futuro.
Quindi la Chiesa si indirizzò verso un conservatorismo spirituale: non reazionario, ma con scarso impatto sociale. Inoltre, con la fine dei regimi militari il ruolo profetico parve meno necessario, perché c’era la democrazia, anche se i problemi economici e sociali non erano diminuiti. Con l’emergere della stampa libera, dei sindacati, della sinistra politica, la Chiesa non fu più il simbolo della lotta contro l’oppressione e si dedicò maggiormente ai problemi interni. D’altro canto, il fatto che in pochi anni 40mila preti avessero lasciato il ministero e che l’enciclica Humanae Vitae non fosse stata ben accolta dai fedeli, furono preoccupazioni che iniziarono a minare l’apertura conciliare e la Chiesa cercò di disciplinare un po’ le proprie fila.
Negli ultimi anni i cattolici hanno finito per non ubbidire né contestare, ma per prescindere dalla Chiesa, in quello che Carlos James in Brasile chiama «scisma bianco» e Piero Cappelli «scisma silenzioso». Io preferisco usare il termine «prescindência»: la gerarchia fissa alcune regole e la gente le valuta dicendo «se mi piacciono resto, altrimenti me ne vado», oppure «rimango, ma non le osservo».
Ognuno vive una fede a propria misura e la Chiesa propone una religione terapeutica, che dovrebbe consolare i più poveri nelle situazioni di precarietà sociale (ma in questo gli evangelici sono più bravi di noi) e rispondere alle domande di senso della vita dei ceti medi. Così oggi la personalità più importante della Chiesa cattolica brasiliana sembra essere il prete cantante Marcelo Rossi, il quale trasmette una religione che dà gioia e pace, mentre è scomparso lo slancio profetico.

Non è importante che le persone si sentano bene?
Il problema è che l’impegno ha ceduto spazio alla ricerca di benessere spirituale. Certo, c’è un piccolo gruppo di impegnati, ma la maggior parte delle persone oggi si sentono bene quando incontrano amici, celebrano con loro, pregano in un bel posto... Il neoliberismo ha fatto interiorizzare l’idea che, per realizzarsi, bisogna anzitutto stare bene con se stessi. I giovani cercano momenti comunitari, non una vita comunitaria, e la pastorale giovanile è fatta di iniziative puntuali, slegate tra loro, anche quando hanno valenza sociale.
In passato l’azione sociale implicava fare propria una causa, per cui comportava continuità, strategia, progetti, mentre oggi si riduce a momenti in cui sto con i poveri e tutti siamo contenti, ma finisce lì. Questo vale anche per i giovani preti, religiosi e religiose: non sono meno generosi della mia generazione, ma sono «istantaneamente» generosi.
Sul piano pastorale dobbiamo mostrare che una trasformazione esige obiettivi a medio e lungo termine, dobbiamo fare una proposta controculturale.

E la Chiesa latinoamericana lo sta facendo?
Abbastanza, però questa situazione provoca insicurezza e non si cerca la risposta in un impegno o in un progetto, ma in devozioni o liturgie antiche. Oggi ai giovani preti piacciono le celebrazioni in latino, che stanno ricomparendo in Brasile, oppure portare il colletto rigido, perché sono cose che danno sicurezza. Anch’esse però, va sottolineato, sono assunte in modo puntuale, non c’è un progetto di restaurazione.
Un altro aspetto evidente oggi è che i giovani hanno molto più di noi bisogno di riconoscimento sociale, forse perché si sentono più insicuri sul piano esistenziale.

Non vi sono esperienze più positive?
Soprattutto in Brasile stanno nascendo comunità alternative, ai margini delle strutture ecclesiastiche. Lo «scisma silenzioso» mostra una capacità di critica nei confronti dell’istituzione che preoccupa i vescovi, ma esprime una ricerca di autentica vita cristiana. Sta crescendo molto in Brasile l’attenzione al Gesù storico, diverso dal Cristo del dogma, con una scommessa su una Chiesa comunitaria, che però la gerarchia non appoggia molto. Temo che si allargherà sempre di più la distanza tra questi gruppi cristiani impegnati e la forma istituzionale della grande Chiesa.

A cinquant’anni dal Concilio, quali sono oggi i compiti più importanti della teologia latinoamericana?
Prima di tutto deve prendere atto che ci sono nuovi tipi di poveri, oltre agli sfruttati dal sistema neo-liberale: ad esempio, gli esclusi dalla società della conoscenza, i migranti, coloro che sono emarginati a causa della loro religione, perché c’è un reciproco rifiuto tra cattolici e neopentecostali. E poi c’è quell’«altro» impoverito e sfruttato che è l’ambiente.
Poi per me è molto grande il problema della famiglia, perché sta emergendo una grande diversificazione di forme, accanto a quella tradizionale (per esempio, monoparentali, composte da un singolo genitore con figli, coppie omosessuali, ecc.), alle quali bisogna essere aperti perché la comunità cristiana non può escludere nessuno. Un altro problema è quello della pluralità dei ministeri ecclesiali, che non devono essere ridotti a quelli del clero. Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi propugnava questa apertura, che non è stata ampia come si sperava. Resta pure l’interrogativo di come garantire il ministero della celebrazione eucaristica a ogni comunità cristiana.

Dal suo punto di vista qual è la principale sfida per la Chiesa?
Bisogna sempre richiamare due punti della teologia della liberazione che per me non sono negoziabili: l’opzione per i poveri e la libertà ermeneutica, perché dottrina, liturgia e disciplina devono essere continuamente reinterpretate, anche se contro tale libertà i conservatori conducono una battaglia feroce, paradossalmente a partire anch’essi da un’interpretazione, quella che la tradizione consista nella teologia prevalsa dopo il Concilio di Trento.
Mauro Castagnaro

© FCSF – Popoli