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Non mi riConcilio. Viaggio tra i cattolici tradizionalisti
2 gennaio 2012

Condannano il dialogo interreligioso, prediligono le liturgie tridentine, strumentalizzano il Papa e non amano la società multiculturale. Soprattutto considerano il Concilio Vaticano II come il male assoluto per la Chiesa. La nostra inchiesta sui cattolici tradizionalisti si apre con un articolo di Alberto Melloni.


A chi lo guardi da fuori potrebbe apparire come un fenomeno nuovo. Di certo è una moda, ma dalle radici antiche. Lo sprezzo per l’ascolto dell’altro, l’antagonismo verso il dialogo, il rifiuto della mediazione a favore di un’identità proclamata con la rozzezza di chi non ha un baricentro, il martellare l’elogio di sé, l’evocazione di disegni oscuri contro privilegi e arroganze, e alla fine la pretesa che tutto, perfino la violenza, si compia in nome di Dio.
Un fenomeno definito sovente con il termine «fondamentalismo» - un conio protonovecentesco del cristianesimo battista degli Usa del Sud, che rivendicava la difesa dei propri fundamentals - e considerato nel linguaggio comune del secolo XXI un rischio, una deriva o una natura dell’islam: ma che, in realtà, si riverbera su tutti gli universi religiosi e che merita un giro d’orizzonte almeno rapidissimo.

SE L’ALTRO È UNA MINACCIA
Sotto ogni cielo, infatti, la rivendicazione di identità ed esclusività di un diritto disegna un ambiguo confine con la violenza. Quando essa appare dentro il contesto cristiano, come è successo questa estate quando un folle fondamentalista ha fatto strage di ragazzi sull’isola di Utoya, in Norvegia, in nome di un «suprematismo» che si oppone alla multiculturalità, l’Occidente è pressoché unanime nell’osservare - e non è un’invenzione - che la componente di delirio psicopatologico è nettamente dominante.
Quando invece il criminale psicopatico è un musulmano, quella stessa cultura e informazione tende volentieri a generalizzare, quasi che il Corano avesse con la violenza un rapporto qualitativamente diverso da quello che è scritto nei libri e nelle tradizioni delle altre fedi.
Ancora diverso è il caso dell’ebraismo, dove la nascita dello Stato d’Israele e la trasformazione dell’utopia sionista in un sistema politico permette al mai sopito antisemitismo europeo e a quello arabo di più giovane fattura, di individuare in questo o quell’atto di guerra di quel Paese una sorta di «riprova» di un’inclinazione bellica; denunciata con una prontezza che le decine di migliaia di morti della recente guerra di Libia non hanno saputo meritare. E gli incroci fra autoassoluzione e accusa si potrebbero moltiplicare invertendo parti e quadranti.
Il fondamentalismo, infatti, è così, sotto ogni sole: si cura del proprio diritto presentandolo come minacciato dall’altro. Anzi: parla del sé - il religioso, culturale, etnico - come la vittima predestinata di un altro che deve essere neutralizzato prima che sia troppo tardi.
Su questa base, che - come ci ha insegnato lo storico e politologo francese Jacques Sémelin - è il prodromo di tutti i grandi genocidi del Novecento, ci si predispone a uno scontro che non prevede prigionieri o perdonanza. È stato così nel disperato delirio di chi, come Oriana Fallaci, ha letto nel proprio shock dell’11 settembre il segnacolo della trasformazione dell’Europa in una Eurabia che andava (andrebbe, per alcuni) impedita negando quella visione dell’uomo e di Dio che impasta la fede del Profeta. È stato così, con ben più sanguinosi effetti, in quelle moschee dove si paventava la distruzione e la profanazione dell’islam come programma del Grande Satana.

IL VATICANO II COME NEMICO
Accanto a questi estremi già approdati a un identitarismo violento o disponibile a distinguere discriminando a seconda delle situazioni (propter qualitatem personarum, avrebbe detto il diritto antico) la titolarità dei diritti dell’uomo, ci sono altri fondamentalismi: prodromi per alcuni, contigui per altri a quelle frange. Fondamentalismi che si riconoscono nella difesa intransigente del letteralismo biblico come spiegazione del mondo e strumento di educazione; oppure che rivendicano la trasformazione in legge di norme della disciplina religiosa, vuoi perché identificata con la legge/diritto di natura, vuoi perché ritenute parte dell’identità culturale/nazionale. Oppure che conducono una battaglia vivacissima non contro chi è altro, ma contro chi non si identifica con quella battaglia e, nella sua veste di nemico interno, viene ritenuto il peggio del peggio.
Questo tipo di fondamentalismo ha varianti non banali anche nel mondo cristiano e in quello cattolico, dove abita, così come abita ovunque. Nel grembo cattolico romano esso si rende oggi più visibile e vocale per un complesso di fattori, che non sarebbe difficile ripartire in pensieri parole e omissioni. Il fondamentalismo cattolico - userò questa generalizzazione per indicare l’integrismo, il clericofascismo, l’antisemitismo islamofobico e quello islamofilo, il tradizionalismo temperato, il tradizionalismo scismatico, e via dicendo – non ha come nemico una corrente, un gruppo, una spiritualità, un’enciclica, un libro, una persona, ma niente di meno che un concilio, il Concilio Vaticano II.
Dunque quell’organo sul quale ridonda la potestà piena e suprema sulla Chiesa, diceva il codice di diritto canonico pio-benedettino del 1917: quello che in materia di fede esprime la infallibilità della Chiesa tutta nel credere e che, Spiritu sancto legitime congregata, rappresenta l’incontro vivo della Chiesa con il Vivente.
Il Vaticano II appartiene senza dubbio al novero dei grandi concili: e dunque è normale che a quasi mezzo secolo dalla sua apertura la sua ricezione sia ancora in corso, segnata da tensioni e vitalità che hanno richiesto tempo per esprimersi e hanno agito a livelli diversi.
Dal basso, come nel caso della riforma liturgica che ha ricentrato sull’eucarestia la vita delle Chiese, il ministero e lo stesso sacramento dell’episcopato, in un modo che può essere contraddetto, ma non rovesciato: a tal proposito, è significativo che, nel momento in cui la suprema autorità decide non solo di perdonare gli scismatici lefebvriani, ma anche di assecondare con sovrana indulgenza la loro nostalgie per riti che non conoscono, le comunità della grande Chiesa non subiscano alcun contraccolpo e continuino la loro vita liturgica di prima.
Dall’alto, come nel caso del dialogo interreligioso: giacché quando il Concilio accettò di parlare non solo degli ebrei ma di fare una dichiarazione sulle religioni, pensava di aver evitato con un escamotage la indisponibilità dei vescovi arabi a un documento che poteva apparire favorevole allo Stato d’Israele (allora non ancora riconosciuto dalla Santa Sede). In realtà, appaiando il rapporto di intrinseca e asimmettrica dipendenza del cristianesimo dall’ebraismo al rapporto con le altre religioni, ha finito per fare di Israele il paradigma di ogni alterità, anzi il sacramento di ogni alterità. Sicché negli anni successivi abbiamo potuto assistere a eventi come la preghiera comune di Assisi del 1986 - una delle perle del pontificato di Wojtyła - che esplicitava con un invito il «bisogno» dell’altro di cui il cristianesimo si sente portatore. O leggere parole come quelle di frère Christian de Chergé, priore del monastero di Tibihrine, in Algeria, assassinato come centinaia di migliaia di algerini (soprattutto musulmani) nella guerra civile: nel testamento - scritto quando ormai era chiaro che rimanere fedele alla vocazione comportava il martirio - riconosceva al suo futuro assassino che la morte gli avrebbe dato modo di vedere i musulmani con gli occhi con cui li vede Dio.

UNA LETTURA IDEOLOGICA
È altrettanto normale che contro questo Concilio e la sua ricchezza teologica si mobilitino gruppi «reazionari» in senso stretto: e che, per ragioni propagandistiche, siano costretti a ideologizzare la realtà. Devono dunque credere ideologicamente che il Vaticano II - al quale si deve la riapertura del contatto con la grande tradizione d’Oriente e della Chiesa del primo millennio - abbia dismesso una «tradizione» che spesso non è che una serie di abitudini o costumanze. Oppure devono sostenere che il Vaticano II è un concilio «ammodernatore» («modernista» per i peggiori) che ha abbassato la qualità della disciplina del clero e del popolo per compiacere una cultura aliena come quella della società secolare, quando è ben chiaro che l’intenzione conciliare è quella di restituire al Vangelo l’eloquenza che esso aveva e non può non avere.
I più raffinati, invece, hanno agito e agiscono su altri piani: la definizione che il Vaticano II dà di sé come come concilio «pastorale» - una qualifica così complessa da risultare impervia alla malafede -, viene presentata, ad esempio, come una sorta di autocastrazione di un’assise che non avrebbe avuto di mira questioni dottrinali. O ancora, la complessa endiadi di Benedetto XVI sulla ermeneutica della riforma e della continuità - riforma della vita, continuità ontologica del soggetto Chiesa, nel discorso del papa - viene mutilata in un elogio della continuità senza basi né storiche né teologiche, ma che serve a vaticinare una riscossa del cattolicesimo contro i suoi nemici di sempre, contro le altre confessioni e le altre fedi, contro tutto e contro tutti.

POTERE E TRADIZIONE
La moda descritta per sommi capi ha una fortuna che non solo dipende dalla sua consistenza, peraltro modesta; e neppure dal tentativo (forse non efficacemente monitorato)di annettervi le sottili distinzioni pontificie e di strappare a Ratzinger la sua biografia. C’è, mi pare, una ragione politica più profonda che agisce. Nel mondo globalizzato, dove le fisionomie si mescolano e i paesaggi mutano, ogni potere cerca di presentarsi come custode di una tradizione e paladino di un nazionalismo culturale nel quale si possano mettere a frutto appartenenze reali e connessioni storiche effettive, in uno spirito di rivincita da attivare alla bisogna.
È una moda che in molti Paesi è facile sentire e presentire, ma non una novità. Quando Benito Mussolini si definiva «cattolico e anticristiano» si collocava già sulla linea di una mentalità che sarebbe arrivata per quella via al colonialismo, alla guerra, alla Shoah: cose, queste, che stavano a monte del Vaticano II e contro le quali il Concilio aveva cercato di trovare una risposta nella fedeltà al Vangelo nel tempo.    

Alberto Melloni
Storico della Chiesa,
Docente di Storia del cristianesimo
nell’Università di Modena-Reggio Emilia,
direttore della Fondazione
per le Scienze religiose Giovanni XXIII  di Bologna

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