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La suora, il vescovo e Celentano
28 febbraio 2012

Anticipiamo l'editoriale del numero di marzo di Popoli, firmato dal direttore Stefano Femminis.

Se ne sono andati a sette anni e un giorno di distanza: suor Dorothy Stang, missionaria statunitense in Amazzonia, brasiliana di adozione, uccisa con sei colpi di pistola il 12 febbraio 2005; dom Ladislau Biernaski, vescovo di São José dos Pinhais e presidente della Commissione pastorale della terra (Cpt), organismo della Chiesa brasiliana, stroncato da un tumore lo scorso 13 febbraio.
Suor Dorothy - detta irmã Dorote - è diventata famosa solo dopo la sua tragica fine. Viveva ad Anapu (Pará), dove portava avanti un progetto di sviluppo sostenibile che univa la tutela della produzione familiare alla difesa dell’ambiente. È stata uccisa perché disturbava gli interessi di alcuni latifondisti locali. Sia gli assassini materiali sia i mandanti sono stati condannati, ma probabilmente suor Dorothy oggi non sarebbe contenta: il Codice forestale in via di approvazione a Brasilia e la controversa diga di Belo Monte (il terzo complesso idroelettrico più grande del mondo) apriranno ulteriori ferite in Amazzonia e tra i suoi abitanti indigeni. Senza contare i danni dell’«agrobusiness», con le sue monoculture predatorie.
Ladislau Biernaski era un uomo appassionato della terra, come ha scritto Jelson Oliveira, membro della Cpt, sul sito della stessa: «Mani callose e unghie scure, il suo grande orgoglio era mostrare l’orto che curava personalmente nella semplice residenza in cui viveva. Questa passione, ereditata dalla famiglia di immigrati polacchi, fece sì che egli trasformasse la terra in una causa evangelica e politica. Per essa passò anni a visitare accampamenti. Spesso lasciava da parte mitria e altri simboli episcopali per mettersi a fianco del popolo e celebrare questo impegno profetico per la giustizia. Dom Ladislau ha saputo comprendere e spiegare la missione pastorale della Chiesa dei poveri e, ispirato da questa chiarezza, ha partecipato a numerose mobilitazioni dei poveri del Paraná, nelle campagne e nelle città».
Questi testimoni ci ricordano due cose. La prima è che la terra non è una merce, né tantomeno una variabile della finanza - come vorrebbero farci credere gli avvoltoi del land grabbing, Stati o multinazionali che in un decennio si sono accaparrati, soprattutto in Africa, un’estensione di terreni pari a otto volte la Gran Bretagna -, ma un valore da tutelare, una condizione di possibilità per l’affermazione della dignità umana, oltre che «materia prima» della cultura e dell’identità di un popolo. L’economia globale è ormai ampiamente terziarizzata, l’agricoltura soggiace alle logiche delle Borse e le nostre vite quotidiane sono sempre più mediate dalla tecnologia: eppure la terra resta, molto concretamente, ciò che fa da base all’universalità dei diritti, poiché noi umani ci chiamiamo così e siamo tali perché nati da una stessa terra (humus).
Il secondo messaggio di irmã Dorote e dom Ladislau è soprattutto per quanti ancora ripetono il ritornello della Chiesa che dovrebbe astenersi dal fare politica per dedicarsi alle cose del Cielo. Ultimo caso la sortita di un noto cantante-telepredicatore al festival di Sanremo, forse nostalgico di uno spiritualismo anestetizzante che non ha nulla a che vedere con Gesù e il Vangelo. Il cristiano vero è invece colui che si impegna con tutte le forze a rendere più abitabile il mondo, anzi la terra..

Stefano Femminis

 

© FCSF – Popoli