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Mani straniere sulla terra africana
31 marzo 2011
«Il rischio è che si crei un patto neocolonialista», tuonava Jacques Diouf, direttore generale della Fao (organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura), poco meno di tre anni fa. Il fenomeno del landgrabbing, lo scippo della terra nei Paesi in via di sviluppo, era in piena esplosione. Ricchi Stati del Golfo, imprese indiane, fondi d’investimento americani e inglesi, società europee erano, e sono, al centro di una caccia alla terra che si consuma soprattutto in Africa. La Banca mondiale in un suo recente rapporto (Rising Global Interest in Farmland. Can It Yeld Sustainable and Equitable Benefits?, 2011) afferma che tra il 2008 e il 2009 sono state annunciate acquisizioni di terreni pari a 45 milioni di ettari, una volta e mezza l’Italia. Ma, secondo altre organizzazioni, la cifra avrebbe già superato i 65 milioni di ettari. Fino al 2008 l’espansione delle terre destinate all’agricoltura avveniva a un ritmo inferiore ai 4 milioni di ettari l’anno.
Una corsa che molti credono non si fermerà. Perché se a mettere in moto il landgrabbing è stata l’esplosione di due tempeste, quella sui prezzi del cibo e la crisi finanziaria, a rafforzarlo contribuisce il terremoto demografico che ci aspetta tra meno di 40 anni.
Tra il 2007 e il 2008, i prezzi di riso, grano, soia, mais hanno subito aumenti straordinari. Per molti poveri, il pane è diventato un lusso. In 30 Paesi ci sono state rivolte che hanno contribuito ad aggravare la situazione. Lo scenario ha spaventato Stati quali Arabia Saudita, Emirati Arabi e Corea del Sud, che dipendono in larga misura dalle importazioni per sfamare le popolazioni, ma anche giganti come India e Cina, alle prese con il degrado ambientale e un futuro poco roseo per la propria produzione agricola.

«L’AFFARE DELLA VITA»
«Arriverà un momento in cui anche per chi dispone di denaro non sarà facile comprare alcune materie prime», è stata l’amara osservazione di Eissa Mohammed al-Suwaidi, ex direttore generale del fondo sovrano di Abu Dhabi. A preoccuparlo, più ancora della terribile crisi in atto, sono le prospettive per il futuro. Nel 2050 sulla terra vivranno 9 miliardi di persone: per sfamarle tutte, secondo la Fao, sarà necessario produrre almeno il 70% di cibo in più. Ma anche se la crescita demografica dovesse rallentare, come prevedono nuove stime, ad ampliarsi sarà la classe media mondiale. Milioni di cinesi e indiani avranno sempre maggiori disponibilità economiche e consumeranno più proteine: carne e derivati del latte. Questo significa aumentare gli allevamenti e quindi la produzione di cereali per l’alimentazione degli animali. A ciò si aggiunge la crescente sete di biodiesel ed etanolo legata alla svolta «verde» nelle politiche energetiche di Usa e Ue.
Dove si coltiveranno le tonnellate di soia e grano in più? E dove si pianteranno palme da olio e canna da zucchero? Come faranno i Paesi che non possono coltivare grano o riso sul proprio territorio a garantire la sicurezza alimentare ai propri cittadini? A molti governi la soluzione migliore è sembrata quella di assicurarsi la terra dove costa poco o nulla per coltivare il necessario per sfamare le proprie popolazioni. I fondi d’investimento bastonati dalla crisi, ma anche molte aziende dell’agrobusiness, hanno invece intravisto in questo Risiko un’occasione di profitto. «L’agricoltura sarà l’affare della nostra vita», ha sentenziato un guru di Wall Street, Jim Rogers. La recente fiammata nei prezzi del cibo, che a febbraio hanno fatto registrare un nuovo massimo, sembra rafforzare la sua tesi e getta un’ombra sul destino dei milioni di affamati nel mondo.

AFRICA TERRA DI CONQUISTA
La Banca mondiale ha calcolato che il 70% degli accordi di cessione della terra sono stati sottoscritti in Africa, soprattutto in Etiopia, Sudan, Mozambico. La ragione principale è che nell’Africa subsahariana si concentra la maggior parte (circa il 45%) della terra adatta alla coltivazione non ancora sfruttata e vi sono risorse idriche sottoutilizzate. Ma, soprattutto, la terra costa poco. Susan Payne, amministratore delegato di un fondo d’investimento britannico nato per investire nella terra d’Africa, ammette che la terra nel continente nero costa molto meno che in altre aree del mondo ed è convinta che chi investe nel suo fondo possa aspirare a profitti anche del 25%.
In realtà, in molti Paesi africani la terra non si può comprare, ma soltanto affittare per periodi che possono arrivare fino a 99 anni. Lorenzo Cotula, ricercatore dell’International Institute for Environment and Development (Iied) di Londra, ha studiato una serie di contratti siglati in Africa, scoprendo che le tariffe per la concessione della terra variano da un dollaro all’anno per ettaro dell’Etiopia ai 13,80 dollari del Camerun. Ma in alcuni casi, come in Senegal o Mali, non viene chiesto alcun compenso.
Questa svendita viene giustificata dai governi come un modo per attrarre i capitali necessari alla creazione di infrastrutture. «Se vuoi che la gente investa nel tuo Paese devi essere pronto a fare concessioni», spiegava, nel 2008, Isaiah Kabira, portavoce del presidente del Kenya, commentando l’avvio delle trattative per la cessione al Qatar di 40mila ettari di terra nel delta del Tana. Gli emiri avevano promesso, in cambio, di spendere quasi 4 miliardi di dollari per realizzare, tra le altre cose, un porto nell’isola di Lamu. L’Etiopia ha offerto 1,8 milioni di ettari agli investitori indiani, la Tanzania ha creato una banca della terra «libera». L’Office du Niger, l’ente maliano che amministra la zona risicola lungo il fiume Niger, dispone di due milioni di ettari dei quali, avverte, soltanto 84mila sono «messi a valore». Su 100mila ha già messo le mani la Malybia, società partecipata dal fondo sovrano libico.
La contropartita promessa dai cacciatori di terra sono strade, impianti di stoccaggio e trasformazione, insieme alla creazione di posti di lavoro per la popolazione. Sulla carta gli accordi sembrano vantaggiosi. Per poter nutrire il mondo nel 2050, secondo la Fao, bisogna investire almeno 83 miliardi di dollari all’anno nei soli Paesi poveri, dove la produttività dei campi è bassa e spesso i contadini non sono in grado di sfamare la propria famiglia. Tutti quei soldi non ci sono nelle casse degli Stati africani, ma cedere la terra «su cui cammina il popolo», per dirla con il capo indiano Cavallo Pazzo, non sembra davvero la soluzione. «Molti dei contratti non sono equilibrati sotto il profilo economico - scrive Cotula -. In certi casi si permette agli investitori di scegliere le zone che preferiscono e non viene chiesta alcuna valutazione d’impatto sociale o ambientale dei progetti». Ci sono Paesi che non impongono limiti al possesso di terra da parte di stranieri, che godono spesso di vantaggiose esenzioni fiscali. Con il diritto all’uso della terra viene trasferito quasi sempre anche quello a sfruttare l’acqua: a che prezzo? E che cosa accadrà quando l’«oro blu» scarseggerà?
«Tanti progetti sono mal concepiti e chi investe è più interessato a speculare sull’aumento di valore della terra piuttosto che ad avviare una produzione», avverte la Banca mondiale. Anche la capacità dei governi di far rispettare gli accordi viene messa in dubbio dagli analisti, che sottolinea­no come il diritto internazionale offra tutele forti agli investitori. E finisca, a volte, per porli anche al di sopra delle leggi nazionali.
Tra i più diffusi, e in certi casi controversi, meccanismi per mitigare i rischi degli investimenti all’estero, vi è la clausola di stabilizzazione che obbliga i governi a non modificare il quadro normativo in senso che possa compromettere il progetto finanziato con capitali stranieri. Gli investitori, in questo modo, puntano soprattutto a mettersi al riparo da colpi di mano, ma nei fatti possono scampare all’applicazione di più stringenti leggi sulla protezione dell’ambiente, a più severe regolamentazioni del lavoro, perfino a una rafforzata tutela dei diritti umani.

CONTRATTI OSCURI
La verità è che non è facile sapere cosa ci sia scritto in quei contratti. Il livello di segretezza delle trattative raggiunge livelli talvolta paradossali e può dar vita a conseguenze devastanti. Ad Alipe (Ghana), un’azienda norvegese si è quasi assicurata 38mila ettari di terra grazie all’impronta del pollice di un capo villaggio, considerata alla stregua di una firma autentica. Gli abitanti lo hanno scoperto soltanto quando sono arrivate le ruspe ad abbattere gli alberi di karité. Solo l’intervento di una Ong locale è riuscita, poi, a bloccare l’abbattimento. In Tanzania è successo che il ministro dell’Agricoltura smentisse un accordo con i coreani annunciato il giorno prima dal portavoce del presidente. «La mancanza di trasparenza e di controlli sui negoziati crea il terreno di coltura per la corruzione e per accordi che non sono [conclusi] nell’interesse pubblico», è l’allarme lanciato dai ricercatori dell’Iied.
In Africa oltre il 90% dei terreni nelle zone rurali sono utilizzati da comunità e villaggi che lavorano i campi o pascolano il bestiame in base a diritti consuetudinari forgiati nel tempo: diritti spesso fragili. Le compensazioni versate in caso di esproprio sono spesso insufficienti e non ripagano della perdita della terra. Questo nonostante esistano convenzioni delle Nazioni unite che proteggono diritti ancestrali delle popolazioni indigene. Non solo, se contadini e pastori nomadi vengono cacciati dalla loro terra, se alle donne viene tagliata la strada per accedere alle sorgenti e ai più poveri viene impedito di nutrirsi di ciò che regala la natura si viola il diritto fondamentale di potersi sfamare, come ha più volte dichiarato Olivier de Schutter relatore speciale dell’Onu sul diritto al cibo.
Fao e Banca mondiale stanno lavorando a un codice di condotta cui gli investitori sono chiamati (non obbligati) ad attenersi, ma associazioni contadine e Ong sono convinti che non sia sufficiente e l’ultimo vertice del Comitato sulla sicurezza alimentare della Fao (ottobre 2010) ha invocato una moratoria sugli accordi per il trasferimento della terra. Chissà se qualcuno darà loro ascolto.    
Franca Roiatti
Giornalista, autrice de
Il Nuovo Colonialismo
(Università Bocconi
Editore, 2010, euro 15)
© FCSF – Popoli