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Libia alle urne nell'incertezza
4 luglio 2012
Voci ricorrenti di secessioni da parte della Cirenaica, divisioni sempre più profonde tra i clan, milizie armate che si combattono le une contro le altre, una criminalità sempre più forte e un governo centrale sempre più debole: a otto mesi dalla morte di Muammar Gheddafi e alla vigilia delle elezioni per la Costituente non è un’impresa semplice essere ottimisti sul futuro della Libia. «In Italia - spiega Karim Mezran, italolibico, docente di Studi mediorientali alla Johns Hopkins University - ci sono voluti decenni prima che la democrazia attecchisse. Come possiamo pretendere che la Libia diventi uno Stato democratico in pochi mesi? Il Paese sta vivendo una fase di transizione molto complessa sulla quale pesa come un macigno una storia fatta di divisioni, autoritarismo, scarso o nullo senso delle istituzioni».

«La storia della Libia - osserva Riccardo Bocco, docente di Antropologia e Sociologia dello sviluppo presso l’Institut de Haute Etudes Internationales et du Développement di Ginevra - parla da sé. La crisi attuale affonda le radici nel colonialismo e in un regime, quello gheddafiano, che hanno fatto tabula rasa delle istituzioni statali e religiose. Il risultato è sotto gli occhi di tutti». La colonizzazione italiana, che ha avuto inizio nel 1911, a differenza di quella francese in Tunisia, ha escluso completamente i libici dall’amministrazione statale. Nei libici si è così creato un rigetto verso lo Stato. La stessa opposizione alla colonizzazione si è strutturata non in un movimento nazionale, ma in un’alleanza di clan coordinati della confraternita islamica della Senussia. L’indipendenza non ha cambiato le cose. Idriss, il sovrano, ha escluso la popolazione dalla vita politica e, dopo la scoperta dei giacimenti petroliferi, ha trasformato la Libia in uno Stato rentier, cioè dipendente dalle rendite degli idrocarburi. Se possibile Gheddafi ha peggiorato le cose. Creando la Jamahiriya, cioè una repubblica delle comunità, ha eliminato le istituzioni nazionali dando il potere ai comitati popolari di base. Una struttura che per decenni è stata il velo dietro il quale si è nascosta la dittatura e che ha dato un ulteriore colpo al già scarso senso dello Stato. La rivolta antiregime non ha fatto altro che raccogliere i frutti di questa storia. Ciò che è rimasto alla caduta di Gheddafi sono le rivalità regionali, accentuate dalla conflittualità tra i clan e uno Stato inesistente.

Le elezioni per la costituente, fissate inizialmente il 19 giugno, sono state rimandate a sabato 7 luglio. Alle urne si presenteranno quasi 300 partiti e 2.470 candidati. Tra i partiti, quattro sembrano in grado di prendere più voti. Due di matrice islamica: il Partito per la giustizia e per la costruzione (legato ai Fratelli musulmani) e il Partito nazionale (dell’ex mujaheddin Abdul Hakim Belhadj); due di matrice più liberale: il Fronte nazionale e l’Alleanza delle forze nazionali (dell’ex premier Mahmoud Jibril).

«Tutti temono una possibile vittoria dei partiti islamici - continua Bocco -, credo invece che dalle urne uscirà un panorama politico molto frammentato. E anche i partiti politici che si dichiarano islamici in realtà rispondono a logiche claniche o, al massimo, regionali». La realtà libica di questi giorni sembra dare ragione a Bocco. Basti pensare alle nascenti forze armate che, in realtà, sono un assemblaggio di milizie che sono agli ordini ognuna a un proprio capo. O alla gestione dell’aeroporto che da mesi è controllato da una milizia. «Anche una lettura troppo schiacciata sulla questione tribale però non è corretta - prosegue Bocco -. Ci saranno gruppi tribali, ma essi dovranno confrontarsi con gli interessi di una borghesia commerciale che in Libia, dall’impero ottomano a oggi, ha sempre avuto un forte peso nella conduzione politica del Paese».

Queste forze centrifughe rischiano di portare alla fine della Libia unita e alla nascita di due o tre Stati più piccoli. «Europa e Stati Uniti - spiega Henri Boulad, gesuita, egiziano, esperto di questioni geopolitiche - mettendo le mani sulla Libia hanno scoperchiato il vaso di Pandora. Oggi si trovano con un Paese instabile e dal futuro incerto. Temo che la Libia sia destinata a dividersi secondo quella logica di balcanizzazione che sta attraversando Medio Oriente e Nord Africa e che non dispiace all’Occidente. Ieri ne sono stati investiti il Libano e l’Iraq. Oggi la Libia e, forse, la Siria».
«In realtà - conclude Mezran -, solo una minoranza della Cirenaica chiede un’indipendenza mascherata da federalismo. Ma Cirenaica e Tripolitania per il momento non sembrano destinate a dividersi. Anche perché, se così fosse, la Cirenaica sarebbe presto fagocitata dall’Egitto, la potenza regionale più vicina. Ciò che la Libia rischia veramente è il caos. E la confusione e l’instabilità spesso aprono le porte ai dittatori. Di fronte a un panorama simile allora preferisco che vadano al potere i partiti musulmani, almeno loro hanno senso dello Stato. E lo dice uno che non è certo fondamentalista».
Enrico Casale

© FCSF – Popoli
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