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Italia-Libia, Monti riattiva il Trattato senz'anima
21 dicembre 2011
«Rispetto al passato non è cambiato nulla. Nonostante le critiche che erano state sollevate nel nostro Paese da intellettuali e politici di molti schieramenti, il Trattato Italia-Libia è stato sottoscritto nello stesso identico modo in cui era stato concepito all’origine. Quindi senza alcuna attenzione ai diritti umani». Roberto Malini di EveryOne, una Ong che si occupa della tutela dei diritti umani, è molto critico nei confronti dell’intesa siglata nel 2008 da Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi, sospesa durante la guerra civile libica e rinnovata il 15 dicembre dal premier italiano Mario Monti e dal presidente del Consiglio nazionale transitorio libico Mustafa Abdul Jalil. «Tutto tornerà come prima - osserva Malini -. I libici riprenderanno a pattugliare le coste e i confini meridionali del Paese. Gli immigrati dell’Africa subsahariana che entreranno in Libia verranno arrestati e saranno incarcerati. La situazione delle prigioni libiche non è certo migliorata rispetto al periodo precedente la guerra civile. Anzi nelle celle, ai criminali comuni si sono aggiunti i prigionieri politici. I penitenziari sono quindi sovraffollati e le condizioni di vita sono terribili. Senza contare poi la possibilità, tutt’altro che remota, che gli immigrati possano essere rimpatriati».

Un’eventualità, quest’ultima, che per molte persone dell’Africa subsahariana può trasformarsi in una tragedia ancora più grande. «Degli eritrei che negli anni scorsi sono stati rimpatriati dalla Libia - continua Malini - non si è più saputo nulla. È come fossero scomparsi. Sappiamo che sono stati incarcerati, alcuni deportati nei lager di Iasyas Afeworki. Ma quali sono le loro condizioni? Sono ancora vivi?».
Il fatto che gli immigrati vengano incarcerati li priva anche dell’assistenza dell’Acnur (Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati). In Libia verrà infatti aperto un ufficio dell’Agenzia Onu, ma i responsabili non potranno avere accesso ai penitenziario. Quindi, gli immigrati che potrebbero sulla carta chiedere la protezione umanitaria non possono ottenerla perché non riescono a entrare in contatto con l’Acnur.

Di fronte a questa situazione, gli immigrati dell’Africa subsahariana stanno cambiando rotta. «Durante la guerra civile libica - osserva Malini - molti invece che entrare in Libia si dirigevano verso l’Egitto e, da lì, attraverso il Sinai, in Israele. È noto come gli immigrati sono stati trattati dai beduini del Sinai: vessazioni, rapimenti, uccisioni, stupri e, addirittura, espianti di organi che poi venivano venduti. È questo che le nostre autorità vogliono rinnovando il trattato?».

Sulla stessa linea anche padre Mussie Zerai, sacerdote eritreo che da anni si occupa degli immigrati: «Il governo Monti ha riattivato l’intesa attratto dalla necessità di ripristinare gli antichi rapporti economici con Tripoli e dalla volontà di contenere l’immigrazione illegale. Non mi stupisce che il nostro esecutivo voglia partecipare alla spartizione della torta delle risorse petrolifere. E non mi stupisco neppure della foga con la quale la politica italiana guarda al contenimento dell’immigrazione illegale. Un tema quest’ultimo che paga in termini elettorali. Ma è possibile che alla Libia non siano state chieste garanzie sotto il profilo dei diritti umani? È possibile che nessuno si chieda come vengono trattati gli immigrati nelle carceri libiche?». La comunità di immigrati a Tripoli vive nel terrore. «La caccia al nero che ha caratterizzato tutta la guerra civile non è ancora finita – osserva padre Mussie che è in contatto quasi giornaliero con le comunità eritrea ed etiope a Tripoli -. Etiopi, eritrei, sudanesi vivono barricati in casa nel timore di venire presi e incarcerati. O di venire picchiati selvaggiamente. Escono solo per procurarsi il poco cibo necessario a sopravvivere».

Secondo padre Mussie, la Libia non è l’unica a non rispettare i diritti umani. «In Tunisia - spiega - le condizioni non sono migliori. Gli immigrati sono costretti a vivere in un campo profughi nel deserto. Protetti da tende di plastica che non li proteggono né dal freddo né dal caldo. Circondati da serpenti e scorpioni. Anche in questo caso l’Italia ha siglato un accordo senza curarsi di come operasse Tunisi».
Anche Giovanni La Manna, gesuita, direttore del Centro Astalli, sede italiana del Jesuit refugee service, è critico: «L’Italia continua solo a pensare ai problemi economici. Degli immigrati ci si disinteressa completamente, è una materia di cui non ci si occupa. I politici temono di perdere voti alle elezioni perché l’immigrazione non è un tema popolare, ma quello attuale è un governo composto da tecnici che non dovrebbe avere preoccupazioni elettorali. Per questo motivo mi sarei aspettato maggiore attenzione a profughi e rifugiati. Mi sarei aspettato che Roma rinunciasse a dare soldi affinché Tripoli costruisca centri di detenzione in cui vengono imprigionati gli immigrati. Prigioni nelle quali gli uomini vengono malmenati, le donne violentate e i bambini maltrattati».

«Chiediamo alle Nazioni unite e all’Unione europea - conclude Malini - di intercedere sui due governi affinché non si profili una nuova era di violazioni dei diritti fondamentali dell’individuo. Che ha già lasciato scie di morti e perseguitati che non hanno certamente reso onore all’Europa».
Enrico Casale
© FCSF – Popoli