Home page
Webmagazine internazionale dei gesuiti
Cerca negli archivi
La rivista
 
 
 
Pubblicità
Iniziative
Siti amici
Idee
Cerca in Idee
 
Lettere da Strasburgo
Rosario Sapienza
Ordinario di Diritto internazionale e Diritto dell'Unione europea nell'Università di Catania
Italiani brava gente? A proposito di respingimenti in mare e diritto di asilo

Il febbraio di due anni fa non fu un gran mese per l’immagine internazionale del nostro Paese. In poche settimane si verificarono ben tre gravi episodi.

All’inizio del mese fummo condannati dalla Corte Internazionale di Giustizia per non aver riconosciuto l’immunità dalla giurisdizione alla Repubblica Federale Tedesca in una serie di casi nei quali cittadini italiani chiedevano il risarcimento di danni per il trattamento subito nei campi di lavoro forzato durante la Seconda Guerra Mondiale.

Poco dopo la metà di febbraio, Latorre e Girone, i due marò del battaglione San Marco, vennero trattenuti in India con l’accusa di aver ucciso al largo delle coste del Kerala due innocui pescatori, scambiandoli per pirati. Una vicenda che si è nel tempo complicata e che ancora non sembra trovare soluzione.

Il 23 febbraio, poi, la Corte europea dei diritti dell’uomo, decidendo nel caso Hirsi Jamaa e altri contro Italia (ricorso n. 27765/09), ci riconobbe colpevoli della violazione di ben tre distinte disposizioni della Convenzione, in occasione di un respingimento verso la Libia di un gruppo di asilanti. L’articolo 3 che vieta, tra l’altro, di respingere migranti verso un Paese ove essi corrano il rischio concreto di trattamenti disumani o degradanti. L’articolo 4 del Quarto Protocollo addizionale, dato che essi furono respinti senza esaminare la posizione individuale di ciascuno di essi. L’articolo 13 della Convenzione, che riconosce il diritto a un ricorso effettivo, dato che i migranti non ebbero la possibilità di ricorrere contro il provvedimento di respingimento.

La Corte non fu tenera con l’Italia anche (o forse soprattutto) a motivo dei suoi accordi bilaterali con la Libia, accordi aventi ad oggetto la consegna dei migranti respinti al regime di Gheddafi, senza curarsi in alcun modo della garanzia dei loro diritti.

L’episodio merita di essere ricordato, al di là dell’imbarazzante anniversario, perché esso mostra chiaramente due caratteristiche della complessa ricerca di una politica comune europea dell’asilo e, più in generale, delle migrazioni. La prima è il suo carattere frammentario, composta com’è da atti di differente fonte e portata precettiva: trattati internazionali, atti dell’Unione europea, sentenze dei tribunali internazionali, leggi statali, sentenze di giudici interni. Un composito e frammentato tessuto, quasi un mantello d’arlecchino, che spetta all’interprete rendere funzionale e funzionante, attraverso una complessa strategia di coordinamento normativo, non sempre univoca nei metodi e negli esiti. Insomma, basta dare precedenza a questa o quella categoria di materiali per arrivare a risultati differenti.

La seconda caratteristica cui alludiamo è il clima di reciproco sospetto tra tutti gli attori impegnati, in particolare tra gli Stati. Assistiamo a un palleggiamento di responsabilità, con scambi di accuse reciproche, dai quali emerge solo la volontà di ogni Stato di mantenere per quanto possibile margini ampi di discrezionalità, ben volentieri accusando gli altri di inadempimenti. Il sistema cosiddetto di Dublino, che mira all’identificazione dello Stato europeo cui spetta l’esame delle domande d’asilo, è ormai giunto alla sua terza edizione (in vigore dal gennaio di quest’anno, mentre da febbraio è operativo il regolamento di esecuzione) e ancora non si può affermare serenamente che il problema sia stato definitivamente risolto.

E visto che l’Europa si avvia sempre più ad avere due o più velocità (dato che l’esigenza suprema del pareggio di bilancio azzopperà più di uno Stato), è facile prevedere che occorrerà attendere ancora molto.

 


24/02/2014