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Anarchia Libia
31 maggio 2012
«Oggi la Libia è come l’Italia nel 1945: un Paese uscito da una dittatura pluridecennale e da una guerra che l’ha prostrato. Il futuro è tutto da costruire». L’analisi di Karim Mezran, docente di Studi mediorientali alla Johns Hopkins University, rispecchia l’incertezza che domina nel Paese nordafricano a otto mesi dalla morte di Muammar Gheddafi (20 ottobre). «In Libia - osserva Arturo Varvelli, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale -, tutti sentono di avere un’opportunità. C’è un grande impegno politico, con la nascita di numerosi partiti, e un grande dinamismo economico, con la creazione di nuove aziende. A fare da contraltare ci sono le drammatiche condizioni di sicurezza in cui versa il Paese. Non esiste un’autorità centrale che abbia il monopolio della forza, il Consiglio nazionale di transizione (Cnt) non ha alcun potere spendibile sul campo».
Costituitosi il 2 marzo 2011 (13 giorni dopo l’inizio della rivolta), il Cnt è stato subito riconosciuto da diverse potenze straniere (tra esse Francia, Italia e Qatar). Il 5 marzo si è autoproclamato «unico legittimo rappresentante della Repubblica libica» e Mustafa Abdel Jalil, Segretario generale del Cnt, è diventato il capo di Stato. «La nascita del Comitato - spiega Mezran - è avvolta nel mistero. Si sa che è stato creato a Bengasi, ma nessuno ne ha definito le norme di funzionamento, né i criteri per entrare a farne parte. Non si conoscono neppure i nomi di tutti i membri». Il Cnt ha poteri legislativi e nomina il governo. Dal 23 marzo 2011 sono tre i premier che hanno ricoperto la carica: Mahmud Jibril (23 marzo-23 ottobre), Ali Tarhuni (23-31 ottobre) e Abdel Rahim Al Kib (in carica). «L’esecutivo - prosegue Mezran - è composto da persone preparate, ma senza carisma. Al Kib ha un’ottima formazione, ma non ha mordente. Andrebbe bene per guidare una democrazia già affermata, non un Paese da ricostruire». «Il Cnt - gli fa eco Varvelli - ha ottenuto una forte legittimità internazionale grazie all’appoggio ricevuto da Occidente e Paesi del Golfo, ma a essa non corrisponde un’altrettanto forte legittimità interna. L’autorità centrale non è rappresentativa delle componenti politiche e territoriali. Al suo interno poi ci sono personalità legate al vecchio regime (lo stesso Jalil), tecnocrati (Al Kib), esuli rientrati in patria, ecc. Non sempre sono in accordo tra loro e certamente hanno poco feeling con la popolazione».

MILIZIE AL POTERE
Ma se il Cnt è debole, chi controlla la Libia? «Il potere è nelle mani delle milizie - spiega Fausto Biloslavo, inviato di guerra de Il Giornale -. Ciò è particolarmente evidente a Tripoli. L’aeroporto e la strada che lo collega alla città sono controllati dalle milizie di Zintan. Il centro è sotto l’autorità delle “brigate” locali. I quartieri a est sono sotto la gestione dei miliziani di Misurata. Una situazione che rispecchia quanto sta avvenendo, su una scala più vasta, nel resto del Paese».
Le milizie sono l’eredità più problematica della guerra. Già nei primi giorni del conflitto sono nati gruppi combattenti. Ognuno di essi si è costituito intorno a un clan (la società libica è strutturata su gruppi clanici) o a una cittadina. Oggi i miliziani sarebbero 150mila, divisi in centinaia di gruppi. Le brigate più organizzate sono una quindicina. Sei o sette, tutte appartenenti alla galassia del fondamentalismo islamico, sono meglio armate, più agguerrite e con maggiore capacità di influenzare i politici.
Non solo: questi gruppi, con sempre maggiore frequenza, si combattono e fanno giustizia sommaria di chi è accusato di aver collaborato con il regime. A Tawargha, 40mila cittadini libici neri, accusati di essere fiancheggiatori del rais, sono stati costretti alla fuga dalla milizia di Misurata e le loro case sono state date alle fiamme. Oggi vivono in campi profughi e sono ancora vittime di violenze e minacce. Amnesty International denuncia il ricorso agli arresti arbitrari di persone legate al vecchio regime o a clan rivali. Sarebbero centinaia le persone detenute in carceri illegali dove non mancano vessazioni e torture.
Alcune milizie si dedicano anche a traffici illeciti. «In Libia non esistono più forze armate e polizia - osserva Mezran -. Miliziani e criminali comuni si dedicano al contrabbando di droga, armi, alcol, traffico di immigrati». Gli scontri avvenuti in marzo a Cufra e a maggio a Ghadames sarebbero collegati proprio al controllo dei traffici illeciti che provengono da Sudan, Egitto, Algeria e Tunisia.

TRAFFICO DI UOMINI
Intanto, sempre dall’oasi di Cufra, è ripreso il transito degli immigrati che dal Corno d’Africa cercano di raggiungere l’Europa. «In Libia - osserva Mussie Zerai, sacerdote eritreo che si occupa dell’assistenza ai rifugiati africani in Italia -, la fine del vecchio regime ha portato, se possibile, a un peggioramento delle condizioni di vita dei migranti. Nessuno, tanto meno i migranti, rimpiange Gheddafi, ma quando c’era lui al governo i rapporti di forza erano chiari. Si sapeva chi deteneva il potere e con chi era possibile trattare. Oggi il Paese vive in uno stato di anarchia. Non si sa chi comanda e i più deboli sono in balia di chiunque detenga un’arma».
Questo traffico è gestito dalla criminalità organizzata, ma in esso hanno una parte importante anche miliziani, ex poliziotti ed ex militari. Tutti sfruttano i migranti cercando di ottenere il massimo da loro in termini di lavoro (in stato di semischiavitù) e di soldi. La stessa popolazione libica non li tratta in modo umano. «Da sempre gli arabi hanno un rapporto conflittuale con gli africani neri - spiega il religioso -. Molte aggressioni vengono giustificate dicendo che i “neri” erano sostenitori di Gheddafi. In realtà, sebbene sia vero che tra i miliziani del rais ci fossero mercenari provenienti dall’Africa subsahariana, questa è una scusa che nasconde un razzismo atavico».
Se l’accordo Gheddafi-Berlusconi siglato nel 2008 era riuscito a bloccare i flussi degli immigrati (senza però rispettarne i diritti umani e talvolta respingendoli verso Paesi in cui subivano dure ritorsioni, come Popoli ha più volte denunciato), oggi un’intesa di questo tipo rimarrebbe sulla carta. Il governo di Tripoli non controlla il Paese. Le coste sono in mano alle milizie in combutta con i trafficanti di uomini. Per fuggire da questo inferno, gli immigrati sono disposti a tutto. Per questo, non appena le condizioni climatiche lo permetteranno, probabilmente gli sbarchi riprenderanno.

«ONDA VERDE»
In questo contesto, i movimenti di matrice islamica hanno un peso sempre maggiore. L’«onda verde», come già successo in Tunisia, Egitto e Marocco, potrebbe arrivare anche in Libia nelle elezioni che si terranno il 19 giugno. «Nel Paese - osserva Mezran -, a livello politico è in atto un confronto-scontro tra un’anima islamista e una più secolare guidata da Jibril (dietro la quale si nascondono le lobby affaristiche legate ai Paesi stranieri, Francia e Qatar in prima fila). Credo che la spunteranno i musulmani. Forse è meglio così, perché i musulmani sono più “puliti”».
Il movimento islamico è frastagliato. I Fratelli musulmani, nati nel 1949 come filiazione dell’omonimo gruppo egiziano, sono stati repressi da Gheddafi. Esclusi dall’agone politico, hanno lavorato molto sul piano sociale, aiutando le fasce della popolazione più svantaggiate, e su quello religioso, con una presenza costante in molte moschee. Ciò ha permesso loro di accumulare consensi. «Non mi sentirei di definire “fondamentalisti” i Fratelli musulmani libici - osserva Biloslavo -. Sono una formazione pragmatica. Anche perché molti di essi hanno vissuto all’estero e si rendono conto che i problemi vanno affrontati senza troppa ideologia».
Oltre ai Fratelli musulmani, che sono accreditati al 30-35% dei consensi, saranno presenti alle elezioni numerosi partiti che si rifanno a un generico idea­le islamico ma non intendono dar vita a uno Stato islamico. In quest’area sta emergendo la figura di Ali al-Sellabi. «È un personaggio singolare - sostiene Mezran - che ha un ruolo particolare in questa galassia. Ha ottimi rapporti con il Qatar (che influenza la politica libica grazie ai cospicui finanziamenti) e con i Fratelli musulmani (anche se non ne è membro). Non è escluso che possa assumere un ruolo-guida nel Paese, con la benedizione di tutti».
Anche i salafiti, portatori di una visione radicale dell’islam, potrebbero ottenere ottimi risultati. Così come altri gruppi integralisti, tra i quali quello di Abdelhakim Belhadj, ex guerrigliero e attuale governatore di Tripoli, che il 16 maggio ha annunciato la sua candidatura.
Il 24 aprile il Cnt ha varato una legge elettorale che ha fatto molto discutere perché escludeva dalle elezioni le formazioni politiche di ispirazione religiosa o localista. Molti hanno letto in questa normativa un tentativo dei partiti laici (che potrebbero conquistare tra il 18 e il 25% dei voti) di tenere fuori dalla competizione i Fratelli musulmani. Un tentativo non andato a buon fine. La legge elettorale è stata infatti pubblicata il 1° maggio, ma senza il divieto.

ITALIA PIÙ LONTANA?
L’Italia è stata spiazzata dalla rivolta. Ex potenza coloniale e partner strategico della Libia gheddafiana, nei primi giorni della rivoluzione non si è schierata né con il rais, né con i ribelli. Solo agli inizi di marzo Roma ha ufficializzato il suo sostegno al Cnt.
Quando ancora la guerra civile era in corso, l’Eni si è mossa per riattivare i pozzi petroliferi e i giacimenti di gas, facendo leva anche sui contratti internazionali siglati ai tempi di Gheddafi e tuttora in vigore. «Nell’ultima parte del 2011 - si legge in un comunicato della multinazionale di San Donato Milanese - Eni ha intensificato gli sforzi per il completo ripristino delle attività produttive in Libia e delle esportazioni di gas attraverso il gasdotto GreenStream, facendo leva sulla solidità delle relazioni con il Cnt e in stretta collaborazione con la compagnia di Stato Noc (…). Sulla base di tali azioni, gli asset Eni erogano alla data corrente circa 240mila barili; il management prevede il recupero e la piena regimazione del plateau produttivo ante-crisi di 280mila barili entro il secondo semestre del 2012».
Sul fronte degli investimenti italiani in Libia però è tutto fermo. Il 21 gennaio il premier italiano Mario Monti si è recato a Tripoli in visita di Stato. Il suo obiettivo era riattivare il Trattato di amicizia italo-libico sottoscritto nel 2008 da Berlusconi e Gheddafi. In realtà, è stata firmata solo la «Tripoli declaration», un documento pieno di generici intenti senza alcun impegno preciso per i libici. «L’Eni si è mossa bene - continua Mezran - grazie ai rapporti decennali con i libici. Il business del futuro però non è l’estrazione del petrolio, ma le commesse per i lavori di ricostruzione (stimati tra i 150 e i 300 miliardi di euro in 10 anni). E credo che l’Italia ne sarà esclusa, in parte o in toto. I libici non sono ingenui. Sanno chi li ha aiutati e premieranno chi è stato loro vicino fin dall’inizio. Sono sicuro che molte commesse saranno dirottate verso Francia, Qatar e Inghilterra».
Saranno le elezioni a dire chi andrà al governo e quale politica economica imposterà. «Il 19 giugno sarà cruciale - conclude Mezran -. Solo dall’esito delle urne si inizierà a capire qualcosa sul futuro della Libia».
Enrico Casale
© FCSF – Popoli
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