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Africa: nuovo anno, vecchie guerre
3/1/2014
Per l’Africa il 2014 non si è aperto all’insegna della pace. Nuove crisi politico-militari si sono sovrapposte a vecchie guerre che si protraggono da anni. Il quadro complessivo non è incoraggiante e si rischia il ripetersi di emergenze umanitarie che colpiscono soprattutto le fasce più deboli della popolazione.

Il conflitto più recente è quello scoppiato nel Sud Sudan. Nel Paese più giovane dell’Africa (è diventato indipendente il 9 luglio 2011) il 5 dicembre si è acceso una guerra civile tra il presidente Salva Kiir e l’ex vice presidente Riek Machar. Il pretesto che ha fatto scoppiare le ostilità è un presunto golpe tentato da Machar ai danni di Salva Kiir. In realtà le tensioni covavano già da ben prima dell’indipendenza. Alla base di tutto c’è un groviglio di interessi economici (legati allo sfruttamento delle risorse idriche e petrolifere) e di rivalità etniche (Salva Kiir appartiene all’etnia maggioritaria dinka mentre Machar è nuer) che non è stato risolto in questi due anni. A quasi un mese dall’inizio delle ostilità, lo scontro sul terreno è durissimo e ha causato migliaia di sfollati. Il governo di Salva Kiir teme un attacco alla capitale Juba dopo l’offensiva dei ribelli nuer sull’importante centro di Bor. Le residue speranze di una pacificazione sono affidate ai colloqui che si terranno tra le parti ad Addis Abeba con la mediazione del governo etiope.

Il 2014 ha ereditato un’altra crisi scoppiata nel 2013, quella della Repubblica centrafricana. Paese poverissimo (il reddito medio annuale pro capite non supera i 400 dollari), nei suoi 53 anni di indipendenza ha conosciuto molti colpi di Stato. Tutti si sono risolti con un cambio alla guida della nazione e in un veloce ripristino delle normali attività amministrative. Quello del 24 marzo 2013 è stato invece un golpe anomalo. Seleka, una milizia fino allora sconosciuta composta da guerriglieri delle province del Nord sostenuti da mercenari ciadiani e sudanesi, ha abbattuto il presidente François Bozizé (che è fuggito) e ha insediato a Bangui il suo leader Michel Djotodia. Centrafricani e osservatori internazionali si aspettavano che la situazione tornasse alla normalità in breve tempo. Le milizie hanno invece continuato a saccheggiare e a vessare le popolazioni locali. Gran parte dei guerriglieri sono di fede musulmana e hanno attaccato chiese, conventi e comunità cristiane. Il conflitto ha così assunto una connotazione di scontro religioso in un Paese nel quale musulmani e cristiani hanno sempre convissuto pacificamente. In risposta alle violenze della Seleka, si sono formate le milizie Anti-Balaka che hanno preso di mira le comunità islamiche. Neanche l’intervento delle forze armate francesi sembra essere riuscito a riportare la calma.

Nel silenzio quasi totale dei media continua anche la guerra in Somalia. Le nuove istituzioni guidate dal presidente Hassan Sheikh Mohamud e sostenute dalla comunità internazionale (che ha promesso ingenti finanziamenti) non sembrano aver riportato la stabilità nel Paese del Corno d’Africa. Il governo controlla infatti un quartiere della capitale Mogadiscio e poche aree del Sud e solo grazie all’appoggio dei militari burundesi e ugandesi, nella capitale, e di quelli etiopi e keniani, nel resto del Paese. I miliziani fondamentalisti riuniti nella formazione al Shabaab dettano ancora legge. L’attentato a un blindatissimo hotel di Mogadiscio organizzato il 2 gennaio ha causato una decina di morti dimostra che gli integralisti (che godono del sostegno di al-Qaeda) sono ancora in grado di colpire quando e come vogliono. Nel frattempo però l’Italia ha deciso di aprire una propria sede diplomatica in Somalia. È stato nominato un ambasciatore che, al momento, non vive ancora a Mogadiscio, ma fa la spola tra la capitale somala e quella keniana. L’Italia, ex potenza coloniale, secondo molti osservatori può giocare un ruolo importante sia nel sostegno all’esecutivo, sia nella formazione del nascente esercito somalo.

Infine non va dimenticata la crisi in Libia. Dopo la caduta di Gheddafi, il Paese non è più riuscito a ritrovare quella stabilità politica necessaria alla ripresa economica. Il governo, sostenuto dalle componenti più laiche, non è infatti riuscito ad aver ragione delle milizie su base clanica che hanno combattuto il regime di Gheddafi. Queste controllano ancora gran parte del territorio sottraendo risorse al governo centrale. A ciò si aggiungono le spinte secessioniste della Cirenaica, la regione più orientale dove si concentra la maggior parte delle risorse petrolifere. In Libia, come in tutta la regione sahariana, non è stata neutralizzata la minaccia delle formazioni qaediste. L’intervento militare francese in Mali ha costretto le milizie integraliste a spostare il loro raggio d’azione al Nord, ma non le ha sconfitte.
Enrico Casale

© FCSF – Popoli