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Somalia, la guerra continua
4 giugno 2013
Sempre più spesso negli articoli dei principali media e nei report di molti centri studi di politica internazionale si legge di una Somalia avviata sulla strada della pacificazione, favorita dalla creazione di nuove istituzioni politiche sostenute dalla comunità internazionale. La situazione sul terreno però è diversa. Il governo del presidente Hassan Sheikh Mahamud è molto fragile e sopravvive grazie all’aiuto delle truppe straniere. Le spinte secessioniste stanno aumentando e la probabilità che si crei un nuovo Stato indipendente nella regione meridionale dell’Oltregiuba è sempre più alta. La comunità internazionale si muove senza un vero coordinamento e ciascuna nazione, a partire da quelle confinanti per finire con Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, operano perseguendo interessi diverse e a volte contrastanti.

In questo contesto i fondamentalisti islamici al Shabaab, dati più volte per sconfitti, hanno invece una forte presa sulla popolazione controllando ampie zone della Somalia centromeridionale. «Gli shabaab - spiega Emilio Manfredi, giornalista e analista, esperto di Corno d’Africa - si muovono come vogliono sul terreno. Sono dappertutto. Si permettono di attaccare nel centro di Mogadiscio e di Chisimaio che dovrebbero essere sotto il controllo del governo. Addirittura hanno attaccato obiettivi in piena zona abigal, il clan del presidente. È vero che non controllano più i porti e a volte non hanno le munizioni, ma non è un problema: le comprano dagli stessi soldati governativi. Sia le forze di sicurezza sia l’intelligence di Mogadiscio sono pesantemente infiltrati dai fondamentalisti somali».

Il governo è fragile e non controlla che poche strade di Mogadiscio e solo grazie al sostegno delle truppe ugandesi e burundesi dell’Amisom (la missione dell’Unione africana in Somalia). E anche il sistema federale che si intende adottare come architettura istituzionale per restituire alla Somalia una qualche forma di struttura statale si sta rivelando pericolosa. In un Paese che ha una società frazionata in una miriade di clan e sottoclan, rischia infatti di trasformarsi in un ulteriore elemento di divisione piuttosto che di unità.

È quanto sta accadendo nella regione meridionale dell’Oltregiuba, dove il 15 maggio le spinte indipendentiste hanno portato all’elezione di Sheikh Ahmed Madobe alla presidenza della regione, in contrasto con il governo centrale di Mogadiscio. «I clan ogadeni e darod - continua Manfredi - hanno avviato questo processo di secessione sostenuti, per motivi diversi, dal Kenya e dall’Etiopia. Nairobi vuole creare uno Stato cuscinetto ufficialmente per motivi di sicurezza, ufficiosamente per poter sfruttare le risorse petrolifere off shore nell’Oceano indiano (in questo sostenuta da Norvegia e Francia). Addis Abeba vuole spostare l’attenzione della popolazione dell’Ogaden (regione etiope abitata da somali) dall’idea di un Ogaden indipendente su quella di un Giubaland autonomo e controllato proprio dagli ogadeni». «L’Oltregiuba - osserva Federico Battera, professore di Storia e istituzioni dell’Africa all’Università di Trieste - è tradizionalmente una terra ricca, con una agricoltura più sviluppata rispetto al resto del Paese. Il porto di Chisimaio poi ha sempre avuto un’importanza strategica per l’economia locale. Oggi ancora di più perché è uno dei punti attraverso i quali non solo entrano le merci, ma anche le armi che servono alle milizie fondamentaliste e a quelle dei clan».

Questo processo è favorito dalle divisioni della comunità internazionale. Gli Stati Uniti giocano su più tavoli. Ufficialmente supportano il governo di Mogadiscio e il sistema federale. Allo stesso tempo però sostengono anche Etiopia e Kenya. Lavorano per sconfiggere i fondamentalisti islamici, ma appoggiano il Qatar che sta cercando di organizzare una piattaforma in cui convivano i rappresentanti dell’attuale governo con le frange nazionaliste di al Shabaab. La Gran Bretagna, secondo quanto ci hanno rivelato alcune fonti diplomatiche, sta seguendo il progetto di dividere in cinque la Somalia. L’Unione europea di fatto sta seguendo l’agenda africana dettata da Londra.

«L’Etiopia - osserva Manfredi - è l’unico Paese che si muove in modo coerente e con obiettivi riconoscibili. Addis Abeba vuole una Somalia debole e frazionata. La creazione di un Oltregiuba indipendente sostenuto dal Kenya risponde a questa logica. E credo che il governo etiope non si tirerà indietro nel sostenere militarmente quello kenyano qualora questo fosse in difficoltà di fronte a un’offensiva delle milizie fondamentaliste».

Al Shabaab infatti continua a comandare il gioco sullo scacchiere somalo. Perse le grandi città sta ora giocando la carta nazionalista sventolando il pericolo che le potenze straniere vogliono spezzettare la Somalia creando tanti micropotentati. «La loro è una strategia vincente - conclude Manfredi -. Non è un caso che abbiano un controllo efficace del territorio non solo in Somalia, ma anche in Kenya. A Garissa, Wajir, Daadab e nella stessa Nairobi gli integralisti sono presenti in modo massiccio. A Nairobi non compiono attentati perché esiste un vecchio accordo di non belligeranza con il governo kenyano che prevede che gli shabaab possano investire i loro proventi in Kenya: in cambio garantiscono di non organizzare alcun attentato».
Enrico Casale

© FCSF – Popoli