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Somalia, al via le nuove istituzioni (tra molte incognite)
21 agosto 2012
Chiuso il capitolo del governo di transizione nazionale (formalmente decaduto il 20 agosto alle ore 24), la Somalia ne apre un altro con una costituzione, un parlamento, un presidente e un premier nuovi. Una svolta nata dalla progressiva pacificazione del Paese avvenuta anche grazie all’intervento del contingente militare dell’Unione africana (Amisom), sostenuto dagli eserciti di Kenya ed Etiopia (e dall’appoggio aereo dei droni statunitensi). Non mancano però le incognite. Gli shabaab, la milizia integralista islamica, sembra alle corde. Sconfitta sul piano militare, si sta però riorganizzando come movimento terroristico e molti analisti temono un’escalation degli attentati. Anche i clan, tradizionale struttura sociale somala, non paiono avere più l’influenza di un tempo, ma le loro contrapposizioni possono minare le nuove istituzioni.
Abbiamo parlato dell’attuale situazione somala con Mario Raffaelli, presidente dell’Ong Amref ed ex inviato speciale per il Corno d’Africa dei governi italiani.

Nel settembre 2011, le istituzioni di transizione, il Puntland (la regione semiautonoma del Nord), il Galmudug (altra regione autonoma a Sud del Puntland) e Ahlu Sunna Wal Jama (organizzazione multiclanica e multiregionale) si sono impegnate a proseguire su un cammino che portasse a nuove istituzioni. A quale punto si è arrivati nell’applicazione di questa Road map?
Tecnicamente la Road map si sta concludendo. Il comitato che doveva selezionare i deputati del nuovo parlamento somalo ha nominato 205 dei 275 membri e sostiene che esiste la maggioranza per eleggere, già questa settimana, prima lo speaker del Parlamento e poi il nuovo presidente. Il presidente dovrebbe poi formare il governo e questo dovrebbe avere la fiducia del parlamento. Anche la costituzione è stata discussa e approvata da un comitato ristretto. Dal punto di vista formale quindi non ci sono stati intoppi. Il vero problema è la reale rappresentatività di queste istituzioni. I membri del comitato che ha approvato la costituzione e quelli del parlamento non sono stati eletti, ma sono stati cooptati. Rimane quindi il dubbio che istituzioni siffatte non siano sufficientemente radicate sul territorio e quindi non possano produrre buon governo.

Non si può negare però che la situazione militare sia migliorata e gli shabaab siano stati messi alle strette.
Certo la situazione militare è migliorata sia a Mogadiscio sia nel Sud del Paese. A Mogadiscio da più di un anno non si combatte e ciò ha portato a nuovi investimenti e a un ritorno dei suoi abitanti sfollati altrove. Però ci sono due grandi punti di domanda. Il primo è che questa stabilità è possibile solo grazie alla presenza dei 17mila uomini dell’Amisom. Tutti sanno che se non ci fossero questi soldati le forze governative sarebbero state spazzate via da tempo. Per acquistare credibilità le nuove istituzioni dovrebbero riuscire ad affrancarsi dal sostegno militare straniero e ottenere un reale appoggio della popolazione somala. Il secondo interrogativo è che gli shabaab sono stati sconfitti militarmente, perché non hanno i mezzi militari per reggere il confronto con i reparti dell’Amisom, ma ciò non significa che siano spariti dalla scena somala. Hanno solo cambiato tattica. Invece che gli scontri in campo aperto, hanno preferito concentrarsi sugli attentati con le bombe o sugli assassinii mirati. Oggi Mogadiscio è tranquilla di giorno, ma di notte è infrequentabile.

Gli shabaab godono ancora di un vasto consenso tra la popolazione?
No, stanno perdendo consenso. La loro popolarità è iniziata a scemare quando lo scorso anno, durante la grande siccità che ha colpito il Paese, i leader del movimento hanno impedito l’arrivo di aiuti alla popolazione da parte delle Nazioni Unite e delle Ong internazionali. Detto questo però va aggiunto che gli shabaab sono una galassia composita che ha ancora una forza militare di tutto rispetto e continueranno a combattere. Ricordiamo che Chisimaio, importante città portuale del Sud, è ancora nelle loro mani. Da settimane, Mogadiscio e le forze dell’Amisom dichiarano di volerla prendere, ma l’offensiva è sempre rimandata. Il problema che ne ha frenato finora la liberazione non è tanto di ordine militare (le forze dell’Amisom hanno i mezzi per vincere), ma politico. Una volta conquistata chi la controllerà? Non l’Amisom che non ha i mezzi per farlo. Ma neanche i somali. Le due componenti somale (brigata Raas Kaambooni e Juba Valley Alliance) che hanno accompagnato la recente offensiva di Amisom e del Kenya in Somalia, sono le stesse che in passato si contendevano proprio Chisimaio.

Dal punto di vista internazionale, chi sostiene il nuovo processo somalo?
Da anni l’agenda è dettata dagli Stati Uniti che considerano la Somalia un Paese di interesse strategico nel processo di contenimento del fondamentalismo islamico. C’è stato quindi poco spazio per altre posizioni. Questo è un problema perché gli Usa proprio in una di contenimento del terrorismo, hanno imposto, anche in questo processo di pace, personaggi poco puliti. ma a loro fedeli. Oggi c’è da sperare che la logica militare lasci spazio a quella politica. E in questo contesto si dia vita a istituzioni nazionali e locali radicati ed efficienti.

Quale ruolo ha giocato l’Etiopia?
L’Etiopia ha ovvi interessi nella politica somala. Addis Abeba ha una controversia storica con la Somalia legata al possesso dell’Ogaden. Non solo, ma l’Etiopia è da sempre uno Stato cristiano anche se quasi la metà della popolazione è di fede islamica, avere una Somalia forte e integralista è per essa una preoccupazione. Queste preoccupazioni vanno comprese. Però è sbagliato il modo in cui l’Etiopia ha cercato di garantire la sua sicurezza. Invece di aiutare la Somalia a creare istituzioni efficienti, ha scommesso sulla destabilizzazione del vicino. Nel breve periodo, una simile politica può garantire la sicurezza dell’Etiopia. Nel lungo termine crea solo instabilità.

Chi sono i candidati più accreditati per le cariche più importanti?
Sono l’attuale presidente Sheikh Sharif Ahmed, lo speaker del parlamento Sharif Hassan Sheikh Aden e il premier Abdiweli Mohammed Ali. Personalità non nuove e che numerosi rapporti delle Nazioni unite ritengono responsabili dell’attuale situazione di instabilità della Somalia. Attualmente però non ci sono outsider in grado di prevalere. Questo non deve far dimenticare che in Somalia sono presenti numerose forze della società civile che da anni lottano per il cambiamento e la nascita di un’alternativa democratica. Quindi dobbiamo essere realisti, i cambiamenti possono esserci anche se le forze della conservazione e dell’instabilità continuano a essere presenti.

I clan hanno sempre un ruolo importante nella politica somala?
Sì, anche se negli ultimi quindici anni la loro influenza si è molto ridotta. La guerra ha portato alla frantumazione non solo delle grandi famiglie claniche, ma anche dei sottoclan. Un tempo c’era una forte dialettica all’interno dei clan, ma i sottoclan erano sempre compatti. Oggi anche i sottoclan sono divisi e litigiosi. A questa dinamica se ne sono sovrapposte altre quali l’influenza sempre maggiore della diaspora sulle questioni interne somale e il peso delle formazioni islamiche più radicali che, almeno formalmente, sono svincolate dalle questioni claniche.
Enrico Casale

© FCSF – Popoli
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