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In salita la road map verso una nuova Somalia
25 luglio 2012
La Somalia riuscirà ad avere nuove istituzioni entro il 20 agosto? Sono in molti a dubitarne. La road map alla quale si sono impegnati nel settembre 2011 le istituzioni di transizione, il Puntland (la regione semiautonoma del Nord), il Galmudug (la regione a Sud del Puntland anch’essa dichiaratasi autonoma) e Ahlu Sunna Wal Jama a, un’organizzazione somala multiclanica e multiregionale, sembra una strada in salita. La situazione politico-militare instabile, gli interessi divergenti dei politici e le non chiare posizioni della comunità internazionale stanno complicando il cammino che dovrebbe portare il Paese del Corno d’Africa fuori dalle secche dell’anarchia in cui si trova dal 1991.

La road map prevede che il governo e il Parlamento transitori, in carica dal 2009, cedano il potere entro il 20 agosto a istituzioni create sulla base di una nuova Costituzione. Siccome la situazione sul terreno non permette di organizzare libere elezioni (ampie aree del Paese sono ancora sotto controllo di al Shabaab, le milizie fondamentaliste islamiche vicine ad al-Qaeda), l’intesa prevede che un gruppo di 125 elders (anziani) nominino 825 membri di un’Assemblea costituente i quali, a loro volta, devono nominare 225 membri del nuovo Parlamento. Gli anziani devono anche dare il via libera al testo costituzionale che poi sarà nuovamente approvato dall’Assemblea costituente. Il lungo processo dovrebbe terminare appunto il 20 agosto con l’elezione del nuovo presidente della repubblica.

Il 25 luglio si è riunita per la prima volta l'Assemblea costituente per discutere la bozza della Costituzione. Il testo prevede la creazione di una repubblica federale basata su leggi compatibili con i principi generali della sharia (legge islamica), il pluralismo politico e la presenza di esponenti femminili in tutte le istituzioni nazionali. Non si fa però accenno alla difesa dei diritti umani e si proclama la libertà di credo, ma non quella di proselitismo per religioni diverse dall’islam. «Questo testo - osserva la giornalista somala Shukri Said - è stato elaborato con la collaborazione di esperti delle Nazioni Unite. Mi chiedo, e molti somali come me si chiedono: la comunità internazionale vuole trasformare la Somalia in uno Stato islamico? Il nostro Paese ha sempre avuto un’impronta laica, perché questa svolta?».
Anche Giulio Terzi, il ministro degli Esteri italiano (che ha partecipato alle varie fasi della road map), si è però detto preoccupato di questa svolta «islamista» e ha chiesto «modifiche sostanziali» al testo per garantire maggiore pluralismo religioso. Modifiche che però è difficile apportare. Come hanno denunciato due elders che, nei giorni scorsi, hanno abbandonato i lavori della loro assemblea in polemica con le istituzioni di transizione che non permetterebbero alcuna integrazione al testo base.

E anche le istituzioni transitorie stanno giocando un ruolo ambiguo. L'attuale presidente Sheikh Sharif Ahmed infatti si è candidato a essere il prossimo capo di Stato somalo. Secondo alcuni osservatori non starebbe quindi giocando quel ruolo super partes che la situazione gli richiederebbe. «Sheikh Sharif non vuole mollare il potere - spiega un’analista esperto di Corno d’Africa interpellato da Popoli che chiede l'anonimato - e sta facendo di tutto per riuscire a rimanere in sella. Recentemente ha chiesto addirittura un prolungamento di altri sei mesi del periodo transitorio. In sei mesi in Somalia potrebbe capitare di tutto...».
Anche la comunità internazionale non supporta in modo convinto il processo. L’Etiopia è confusa. Da sempre ostacola la creazione di uno Stato somalo forte che le contenderebbe la leadership nell’area e, allo stesso tempo, non vuole un Paese vicino dominato dai fondamentalisti islamici. L’Etiopia poi, che non ha uno sbocco al mare, e vorrebbe controllare (anche indirettamente) il porto di Chisimaio, ciò le permetterebbe di avere un accesso all’Oceano Indiano. A ciò si aggiungono le incertezze politiche interne dell'Etiopia. Il premier Meles Zenawi è malato e non si sa che tipo di successione si stia preparando. Anche il Kenya teme il diffondersi dell’integralismo che minaccia non solo la sua fiorente industria turistica, ma mette in forse anche la sua sovranità su quella parte di Oceano Indiano nella quale sono stati scoperti ricchi giacimenti petroliferi (che ora sono gestiti proprio dal governo di Nairobi).
Gli Stati Uniti da anni sostengono l’Etiopia, il loro più prezioso alleato in Africa orientale, però anch’essi temono la creazione di un Emirato somalo simile all’Afghanistan dei talebani. Quindi tendono a sostenere il processo, ma senza spingere eccessivamente sull’acceleratore. In ciò seguiti dagli europei che navigano a vista senza un progetto chiaro e ben definito.
«A queste difficoltà - conclude Shukri Said - si aggiungono i problemi economici. Finora il processo è costato alla comunità internazionale 5 milioni di dollari. Un’enormità. La gente si chiede: dove sono finiti tutti quei soldi?».
Enrico Casale

© FCSF – Popoli
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