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Quei malati di "clandestinità"
12 novembre 2013

La disabilità, nelle sue molteplici manifestazioni, fa parte della vita anche di tante famiglie tra i cinque milioni di immigrati che vivono nel nostro Paese. Abbiamo fatto un percorso attraverso alcune esperienze per raccontare incomprensioni e distanze, ma anche storie di integrazione: partendo da Novara, dove un centro all'avanguardia si occupa di bambini autistici figli di immigrati. Di seguito un altro articolo che compone l'inchiesta uscita sul numero di novembre di Popoli.


Il Centro Frantz Fanon è nato nel 1996 a Torino, all’interno del Dipartimento di Educazione sanitaria dell’Asl 1, sebbene il gruppo di lavoro che l’ha creato avesse avviato la ricerca nei primi anni Novanta. «Le esperienze di ricerca condotte da alcuni di noi in altri Paesi (in Africa, ad esempio) - spiega Roberto Beneduce, responsabile del Centro - ci avevano convinti della necessità di ripensare le categorie e i modelli della psichiatria occidentale. Ed è da qui che abbiamo preso lo spunto per questa iniziativa. In seguito, però, l’Asl non ha più rinnovato la convenzione e da marzo le attività sono proseguite in una sede autonoma che abbiamo preso in affitto grazie alla solidarietà di amici. Questa vicenda è espressione della burocrazia neoliberale che, nascondendosi dietro il dogma della riduzione dei costi, affida interventi complessi, come quelli dell’ambito clinico, a chiunque. Nel Centro operano psichiatri, psicologi psicoterapeuti, antropologi ed educatori, mediatori etnoclinici.

Quante persone straniere seguite?
Mediamente accogliamo 10-15 nuovi casi al mese, compresi gli interventi di supervisione e le richieste di visita per certificazioni. Sono circa 200 i pazienti che stiamo seguendo.

Di quali tipi di disagio psichico soffrono?
I disturbi hanno origine da vicende traumatiche, come nel caso dei richiedenti asilo che hanno subito torture. Molti soffrono a causa di altre forme di violenza (familiare, «rituale», economica), che perpetuano forme di dipendenza e determinano crisi di panico o anche più gravi forme di sofferenza (stati di confusione o depressione). Solitudine affettiva, precarietà e razzismo sono ulteriori motivi di disagio da cui possono derivare anche disturbi propriamente «psichiatrici» (deliri persecutori, ad esempio).

Quali difficoltà incontrate nell’approccio al disagio mentale di uno straniero? E quali difficoltà incontra un malato straniero in Italia?
Le difficoltà sono più di ordine burocratico che clinico. Le questioni comunicative, le differenze nei modelli di cura o le ferite psichiche di cui sono portatori questi pazienti ci trovano preparati: la clinica che pratichiamo può rispondere a queste sfide. Sono la mancanza di risorse abitative e lavorative, la miopia dei dispositivi assistenziali (penso ai problemi dell’affido e dell’adozione dei minori stranieri, gestiti talvolta in modo sommario o caotico dai servizi) o l’ipocrisia dei nostri governi a rappresentare spesso le difficoltà maggiori. Come curare chi è malato solo di «clandestinità», ma è trattato come un criminale, sedato con psicofarmaci nei centri di detenzione, dimenticato ed espulso con un provvedimento che ha il segno di una sentenza kafkiana? I morti di Lampedusa parlano di questo, solo di questo, ne sono l’espressione più cupa. Molti utenti, oltre a soffrire per gli atteggiamenti di rifiuto o razzismo di cui sono vittima, lamentano l’assenza di operatori capaci di ascoltare le differenze.

Qual è il vostro approccio nei loro confronti?
Far sentire gli utenti a proprio agio, lavorare perché le ombre antiche della diffidenza siano cancellate sono state sin dall’inizio le premesse per creare le condizioni di «dicibilità» della loro angoscia. Riuscire a lavorare sulle rappresentazioni culturali è decisivo: curare queste ultime, lasciando che le narrazioni prendano il tempo di cui hanno bisogno, permette di individuare i nodi più occulti e schiudere il cammino della cura. Naturalmente lavorare sui legami familiari e le appartenenze culturali, con i più giovani in particolare, non è meno essenziale.

Enrico Casale

© FCSF – Popoli