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Disabilità e immigrazione: fatica doppia
12 novembre 2013

La disabilità, nelle sue molteplici manifestazioni, fa parte della vita anche di tante famiglie tra i cinque milioni di immigrati che vivono nel nostro Paese. Abbiamo fatto un percorso attraverso alcune esperienze per raccontare incomprensioni e distanze, ma anche storie di integrazione: partendo da Novara, dove un centro all'avanguardia si occupa di bambini autistici figli di immigrati. Pubblichiamo una parte dell'inchiesta uscita sul numero di novembre di Popoli.


Adnan ha un viso tondo e lo sguardo dolce. È un bimbo robusto che dimostra qualche anno di più dei suoi cinque, tutti trascorsi in Italia, lontano dal Punjab pakistano da dove sono immigrati i suoi genitori. Su una seggiolina di legno, davanti a un tavolino, gioca con Francesca, la sua educatrice. Adnan (il nome è di fantasia) non parla mentre è impegnato con le pedine di un Maxi Bingo e neppure quando sullo schermo di un iPad compaiono figure, simboli, stimoli: i segnali di un percorso che sta compiendo. Perché Adnan è autistico, come alcune migliaia di bambini in Italia. E il suo percorso di crescita, il suo mettersi in relazione con il mondo che lo circonda, in sé complesso, è doppiamente condizionato: dalla diagnosi che gli è stata fatta quando aveva tre anni e dal fatto di vivere in un Paese così diverso da quello dove sono nati i suoi genitori.

Il numero dei bambini autistici è in forte aumento, almeno da un quindicennio, mentre non si è fatta ancora chiarezza sulle cause di una malattia che comporta una vasta gamma di manifestazioni (si parla per questo di «spettro autistico»). Anche se l’autismo ha avuto una descrizione scientifica già settant’anni fa negli Usa, grazie allo psichiatra Leo Kanner, resta un male poco conosciuto. Certamente non si tratta di una patologia tipica dei Paesi ricchi. Negli ultimi due anni, al centro Angsa di Novara, tra i piccoli pazienti sono arrivati i primi bambini di origine straniera.

Ospitato nelle aule di una scuola alla periferia della città, messe a disposizione dal Comune, il centro è cresciuto rapidamente in pochi anni. Angsa, l’Associazione nazionale genitori di soggetti autistici, nata negli anni Ottanta come collaborazione di famiglie, nel 2000 ha dato vita a diverse sedi di coordinamento. Quella di Novara è andata oltre la semplice funzione di riferimento per genitori coinvolti, diventando un centro specializzato che si occupa di diagnosi e trattamento. Il tipo di intervento che i minori ricevono al centro è Aba (analisi comportamentale applicata): prevede una serie di programmi comportamentali intensivi, superiori alle venti ore settimanali. Ma il bambino, anche piccolo, non si può fermare a quello, ha bisogno di un coinvolgimento dei genitori e degli insegnanti, per il resto del tempo.


AUTISMO, UN MISTERO PER TUTTI
Al centro sono arrivati alcuni bambini albanesi, una bambina africana (mamma della Nigeria e papà della Sierra Leone) e, da ultimi, una marocchina e un brasiliano. Diversi i percorsi di provenienza, le diagnosi, il bagaglio culturale della famiglie: ma tutte accomunate dallo stesso «shock» che affrontano i genitori italiani. «L’esigenza del nostro gruppo è partita dalle famiglie albanesi, perché non riuscivamo a condividere un progetto educativo - spiega Chiara Pezzana, neuro­psichiatra infantile e responsabile del Centro -. Fornivamo consigli su come gestire i bambini a casa, ma non ci intendevamo. Non era solo un problema di lingua, ma di comprensione culturale. Rispetto al contributo dei papà, ad esempio, mi ero fatta l’idea che in quel contesto un figlio maschio primogenito non fosse veramente “educabile” o, almeno, non come gli altri figli, per l’importanza che gli viene riconosciuta in famiglia. Il papà asseconda tutte le sue esigenze, ma poi è la mamma a dovere affrontare tanti problemi concreti della gestione quotidiana, anche quando è molto irrequieto».

Grazie all’arrivo di un altro bambino giunto dall’Albania per una diagnosi, gli operatori si sono resi ancora più conto che nell’ambiente di origine era forte lo stigma, esisteva una certa vergogna a uscire di casa con un piccolo dai comportamenti imprevedibili e, in un Paese come quello balcanico ancora poco attrezzato, sembrava impossibile l’inserimento a scuola. «Ci siamo chiesti se potevamo, noi, raggiungere le famiglie straniere in difficoltà». Così, per primi in Italia, l’équipe di Angsa si è messa in moto per creare una risposta coordinata che coinvolgesse medici, educatori, insegnanti, mediatori culturali e, naturalmente, i genitori.

«A volte è difficile anche credere alla diagnosi - spiega Chiara Pezzana -. Qualche genitore all’inizio non lo vuole accettare, ma è importante iniziare subito le terapie». I mediatori culturali sono stati fondamentali per un lavoro in rete. «C’erano stati all’inizio fraintendimenti con la famiglia pakistana: la mamma è molto riservata, parlava poco con noi e solo in inglese. Avevamo poi scambiato per indifferenza il ritrarsi del papà mentre la moglie parlava con noi. Arrivare alla scuola materna senza scarpe o pannolino non sono segni di trascuratezza come poteva apparire a prima vista alle insegnanti o agli assistenti sociali, ma semplicemente una diversità culturale». E le esperienze nel Paese di origine segnano anche in modo più profondo. Avendo conosciuto realtà in cui la disabilità porta quasi sempre all’istituzionalizzazione, nei genitori nasceva la domanda: «È vero che quando Adnan sarà grande, lo porteranno in manicomio?». Molti stranieri con sorpresa scoprono che ci sono strutture e progetti di integrazione, case famiglia, centri per gli anziani.


NUOVI LINGUAGGI
Alcuni bambini e ragazzi non hanno un linguaggio verbale, altri possono essere molto irrequieti, altri ancora avere una disabilità intellettiva. Il loro ritrarsi in se stessi, desiderando in modo ossessivo l’immutabilità, richiede risposte. Un bambino autistico ci appare poco comprensibile, come noi sembriamo poco comprensibili a lui. Sono diversi i suoi «codici» di comunicazione, il modo in cui interagisce con l’ambiente, con cui sviluppa relazioni. Per i bambini autistici stranieri, calati nella realtà dell’inserimento in un nuovo Paese, ogni difficoltà accresce. Lavorare sulla comunicazione, soprattutto con chi non parla, è un lavoro duro perché non è spontaneo per nessuno usare le immagini per comunicare.

Occorre molto lavoro sul gioco. Per chi arriva da Paesi dove a scuola c’è una certa idea di disciplina o di apprendimento, è impensabile che sui banchi si possa semplicemente colorare e la dimensione del «gioco per imparare» non è vista come un vero apprendimento. «È importante, invece - spiega Angela Forestiere, educatrice al Centro di Novara -, lavorare sulla comunicazione attraverso il gioco. Lo abbiamo acquisito anche noi in tempi recenti, perché un certo “inquadramento” esisteva anche nel nostro sistema educativo. E quando le famiglie ti chiedono: “dov’è il quaderno”? Possiamo solo rispondere: “arriverà!”». Anche i nuovi strumenti tecnologici aiutano a sviluppare la comunicazione.

L’IMPORTANZA DEI MEDIATORI
I mediatori culturali svolgono un compito chiave. Chitra Sridharan è nata nell’India del Sud e ha esperienza di lavoro con le donne immigrate dall’Asia meridionale. Ha fatto dialogare la famiglia pakistana sia con gli operatori del centro sia con le insegnanti della scuola materna. Con i bimbi albanesi, Edra Ulqinaku ha svolto un lavoro di mediazione anche linguistica. «Ci sono culture dove alla base del primo apprendimento - spiega Chitra - non è importante il disegno, ma l’esercizio di scrittura, perché abbiamo tante lettere da imparare. Anche il gioco del bambino, in molte famiglie può limitarsi a battere una pentola con il mestolo».

C’è in tanti adulti, non solo tra gli immigrati, la fatica di giocare con i figli. «Quando hai bambini piccoli, ricevere una diagnosi del genere per uno di loro, è un colpo duro, ti passa la voglia di giocare - osserva Chiara Pezzana -. Come genitore non ne hai voglia e tuo figlio non lo sa fare, perché i piccoli autistici non sanno organizzarsi un gioco da soli. Inoltre non vedono l’adulto come un punto di riferimento, nemmeno per le richieste importanti». Ne deriva un grande carico di lavoro, perché sembra che ciò che si è appreso dai propri genitori non si possa replicare. «Occorre “reinventare” un modo di essere genitore - continua la neuropsichiatra -. È importante trovare qualcuno che ti dia motivazione e piacere nel giocare con il bambino».

Con gli italiani gli strumenti di comunicazione sono più diretti, naturalmente con gli stranieri si presenta qualche ostacolo in più. Espressività del volto, mimiche, gestualità: tutto è più complesso per un bambino autistico immigrato. I bambini sono già bombardati da mille segnali, gli stranieri ancora di più: vivono immersi in due lingue, regole sociali diverse. Se a scuola si chiede di mangiare con la forchetta, a casa si può mangiare con le mani (nel mondo indiano, lo fanno centinaia di milioni di persone); se gli educatori lavorano per migliorare la comunicazione anche attraverso lo scambio di sguardi con tutti, in alcuni Paesi non è bene guardare negli occhi le donne. Tante volte, nel dubbio, di fronte a queste difficoltà, un piccolo si getta a terra e cerca il modo di scappare sotto il tavolo.

Bruna ed Elisa, le insegnanti della scuola materna invitate nella struttura, hanno assistito alle attività che Adnan svolgeva con le educatrici, hanno imparato principi e procedure, anche complesse, così ora anche a scuola possono ampliare i tempi delle attività. Nello scoprire il mondo dell’autismo, all’inizio non sapevano bene come muoversi: «Quando abbiamo suggerito per il bambino una visita da uno psichiatra, i genitori temevano di andare incontro a un elettroshock. Hanno voluto che noi insegnanti li accompagnassimo alla visita!». Oggi sono soddisfatte: «È bello potere raccontare qualcosa di buono, in un periodo in cui sembra essere tutto negativo. Non mancano le risorse: quando le attivi ti accorgi di averne molte».

Il centro sta cercando un mediatore per facilitare il percorso con la famiglia africana, che a sua volta reagisce diversamente dalle altre. Ma con la bambina le cose si muovono rapidamente, perché il padre parla bene in italiano, ha fatto da tramite per la madre e la loro partecipazione è cresciuta. La mamma pakistana, invece, non esce ancora di casa da sola. «Questo non va bene - osserva la mediatrice -. Il marito sarebbe anche pronto a lasciarle più autonomia, ma teme il giudizio dei connazionali in città». Sono una riserva di solidarietà, i connazionali, ma anche un ambiente che condiziona, soprattutto se si hanno figli con determinati problemi.

«Il bambino adesso è più tranquillo - osserva il papà di Adnan -. Rompe meno le cose, è capace di andare in bagno, è più consapevole nel cambiare i vestiti, il pannolino, ecc. Comincia a spiegarsi di più. Accetta di stare sul seggiolino in auto, con la cintura. Tornato a scuola dopo l’estate si è fermato a guardare le insegnanti in faccia, una a una. Eravamo davvero felici». Gli chiediamo se ama il cricket, lo sport nazionale pakistano. «Certo!», risponde. «E glielo insegnerà quando sarà più grande?». Allarga le braccia e ancora di più un sorriso.

Francesco Pistocchini
Foto di Luana Monte

© FCSF – Popoli