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Rahul Gandhi, Narendra Modi e la corsa al potere in India
7 aprile 2014

Chi sono i leader dei due partiti favoriti alle elezioni politiche indiane, che iniziano oggi, e che cosa ne pensano due autorevoli gesuiti del subcontinente.

Lunedì 7 aprile gli indiani iniziano a votare per le elezioni politiche. L’appuntamento è il più importante nella democrazia che, come numeri, risulta la prima al mondo, con oltre 800 milioni di votanti. Il processo elettorale sarà anche questa volta particolarmente lungo e si concluderà il 12 maggio, quando tutti i nuovi 543 membri della Camera bassa (Lok Sabha) saranno stati eletti nei collegi uninominali.

Anche il prossimo governo indiano nascerà da una coalizione di partiti. Il sistema non prevede il voto diretto del capo del Governo e non sempre il leader del partito maggiore assume l’incarico, come è successo a Sonia Gandhi nell’ultima legislatura.

Tuttavia, le figure di riferimento delle principali coalizioni che puntano a guidare il gigante asiatico nei prossimi cinque anni sono certamente Rahul Gandhi e Narendra Modi. Il 43enne erede della dinastia Nehru-Gandhi, figlio, nipote e pronipote di primi ministri, prende in mano l’eredità del Partito del Congresso che guidò il Paese all’indipendenza e ha governato negli ultimi dieci anni. Il Congresso è indebolito dagli scandali per la corruzione e da un rallentamento della crescita economica indiana.

«Raul ha avuto una infanzia difficile, era un ragazzo debole di salute e oggi è consapevole di non avere il carisma e il talento politico per guidare il discorso politico». È severa l’analisi di Selvaraj Arulnathan SJ, gesuita e sociologo dell’Indian Social Institute di Bangalore. «La sua presenza in politica sarà una bolla di sapone - aggiunge -, ma il Congresso desidera in ogni modo lanciarlo come prossimo primo ministro, perché è imprigionato nelle sue contraddizioni interne, condizionato da mafie e dai potentati che soltanto una figura della “dinastia” potrebbe gestire». Ma entrambi i riferimenti politici di Rahul Gandhi, la madre Sonia e il primo ministro uscente Manmohan Singh, hanno perso slancio: la prima è malata e il secondo è compromesso da imbrogli e feroci attacchi che provengono da ogni parte. Il giudizio severo di padre Arulnathan non finisce qui: «Se il Congresso dovesse vincere, Rahul sarà comunque bersaglio della macchina del fango del Bjp e mostrerà tutta la sua inaffidabilità».

Ma è il Bjp, il Partito del popolo indiano, di ispirazione hindu (già al potere dal 1998 al 2004) a essere il grande favorito alle urne. La sua coalizione, Nda (National Democratic Alliance), è data in vantaggio di oltre cento seggi rispetto alla coalizione di centro-sinistra. E probabile candidato della Nda è la figura più controversa del panorama politico indiano di oggi: Narendra Modi.

Amato dai media, dagli imprenditori e dalle multinazionali, il 63enne Modi è dal 2001 il leader indiscusso del governo locale in Gujarat, uno degli Stati con il più alto reddito procapite. Molti in India sperano che Modi non diventi mai primo ministro. Tra questi, Cedric Prakash, gesuita del Gujarat e tra i più noti di tutto il Paese per il suo impegno per i diritti umani. Padre Prakash è attivo da anni in difesa delle minoranze in una zona dell’India che nel 2002 fu sconvolta dalle violenze interreligiose. Almeno un migliaio di persone morirono e oltre centomila fuggirono dalle loro case negli scontri tra induisti e musulmani. In particolare la minoranza islamica del Gujarat fu presa di mira dagli estremisti hindu, come ritorsione dopo l’attacco a un treno che trasportava pellegrini induisti. Per le responsabilità politiche che ebbe Narendra Modi, già leader del governo locale in Gujarat, gli Stati Uniti da allora hanno negato il visto di ingresso al politico nazionalista per «gravi violazioni della libertà religiosa». Ma se Modi diventasse primo ministro la situazione sarebbe destinata a cambiare.

«Modi è una figura che crea divisioni - osserva padre Arulnathan -. Mai nella storia indiana dopo l’indipendenza c’è stato un politico così polarizzante e così avverso alle minoranze come lui. Tra i suoi alleati c’è la Rss, formazione dell’estrema destra hindu. Dalit (17% della popolazione indiana), adivasi (minoranze tribali, 7%) e minoranze religiose come musulmani (13%) e cristiani (3%) lo vedono come fumo negli occhi». Anche se lo scorso settembre ha ottenuto dal Bjp l’investitura a candidato primo ministro, le sue posizioni hanno portato alla rottura con un importante alleato nella Nda, il Janata Dal, segno che la sua leadership continua a creare divisioni.

Nonostante le indicazioni dei sondaggi, resta difficile analizzare la politica indiana. Oltre ai due principali partiti nazionali esiste un terzo fronte di sinistra, guidato dal Partito comunista indiano, un nuovo partito emergente Aap (Aam Aadmi, Uomo comune) e decine di partiti locali con un potere di ricatto sempre più forte nelle coalizioni per il governo federale. Guidato da Arvind Kejriwal, l’Aap si è affermato a sorpresa nelle ultime elezioni locali a New Delhi. Raccoglie sempre più consensi nei quartieri poveri delle metropoli, incarnando la protesta nata con il movimento «India against corruption».

Identità di casta, tradizioni religiose, differenze linguistiche (l’India ha 23 idiomi ufficiali, la Ue 24), nonché interessi economici possono influenzare l’esito elettorale secondo innumerevoli variabili. E ci vorrà più di un mese perché gli interrogativi trovino risposta.

Francesco Pistocchini

 


 

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