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Siria, quelli che restano
26/09/2014
Nella Siria lacerata dalla guerra civile, i cristiani che non abbandonano il Paese preferiscono allinearsi al regime di fronte alle incognite della ribellione, sempre più influenzata dall’estremismo islamico. Il reportage (pubblicato sul numero di agosto/settembre di Popoli) su una minoranza che si sta armando per disperazione.


«Scriverai di me? Allora devi scrivere che amo il mio Paese, il mio Presidente e i miei connazionali. La Siria è una e dobbiamo tornare a vivere insieme». Shamo è una ragazza di 25 anni di Barabait, o Chiesa Madonna, piccolo villaggio nella valle della Jazira, nel Kurdistan siriano. Sta stendendo al vento i panni appena lavati, mentre in salotto sua madre aspetta che il pane lieviti sotto le coperte. Shamo e la sua famiglia si occupano della piccola e antichissima chiesa siro-ortodossa del villaggio, dove da tempo non viene più nessuno: «Chiesa Madonna ha 1.500 anni e mio padre ne è il custode. Io dovrei essere il prossimo, ma appena ne avrò l’occasione me ne andrò in Europa», confessa Kamil, fratello di Shamo. Il futuro della Siria si gioca sulla pelle dei giovani come Shamo e Kamil, innamorati del loro Paese ma pronti a lasciarlo se non cesseranno le violenze e le divisioni che da più di tre anni lo stanno squassando.

Il 4 giugno scorso Bashar al-Assad, al potere dal 2000, dopo un trentennio di regno del padre Hafez, ha vinto le elezioni con l’88% delle preferenze. Il voto, considerato una farsa al di fuori dei confini nazionali, si è svolto in un Paese che, fra morti, rifugiati e sfollati, in tre anni ha perso oltre il 40% della popolazione e che ha al suo interno più di 6 milioni di sfollati. La Siria è talmente divisa che al Nord e in quasi tutto il Kurdistan i funzionari di Stato non hanno potuto trasportare le urne elettorali. Gli ulteriori sette anni di presidenza che al-Assad si è guadagnato saranno decisivi per capire se la Siria tornerà a essere una nazione unita o se seguirà il destino a cui è stata lasciata la Somalia, «un Paese fallito con i signori della guerra a regnare su fazzoletti di terra», come l’ha recentemente definita Lakhdar Brahimi, inviato speciale dell’Onu dal 2012 fino a pochi mesi fa.

«Noi cristiani siamo gente pacifica e vogliamo mantenere la convivenza con i musulmani. Ma è uno strazio vedere la nostra gente umiliata e i nostri luoghi occupati dai fondamentalisti. Per questo andremo fino in fondo e vinceremo questa guerra», tuona Ahdi, ufficiale cristiano dell’esercito lealista e creatore della milizia volontaria di Saydnaya, poco a nord di Damasco. Il monastero di Nostra Signora di Saydnaya sovrasta la collina a soli 30 chilometri di distanza da Maaloula, villaggio di grande valore simbolico per il cristianesimo perché vi si tramanda l’aramaico occidentale: «Saydnaya è seconda solo a Betlemme per importanza storica - osserva la superiora, madre Febronia -. Ci sono trentasetta chiese e questo convento ha più di 1.500 anni. Siamo nel cuore della cristianità, ma il mondo ci ha abbandonato e non abbiamo più nemmeno la forza di alzare gli occhi al cielo e chiedere al nostro Dio di aver pietà di noi».

Finora Saydnaya si è salvata dalla guerra. Non si può dire lo stesso di Maaloula, che per mesi è stata nelle mani dei miliziani islamisti del fronte al-Nusra, formazione qaedista. A metà aprile l’esercito di Damasco ha riconquistato la città, poche settimane dopo che le dodici suore rapite dal convento di Mar Tekla erano state liberate. Adesso Maaloula è una città disabitata dove si contano i danni provocati dall’assedio e dai combattimenti. «Noi soldati cristiani siamo stati gli ultimi ad arrenderci ad al-Nusra. Eravamo disposti anche a distruggere i nostri luoghi sacri pur di cacciare quei cani terroristi da Maaloula», racconta Ali, 32enne tecnico informatico che adesso vive con la zia a Damasco, vicino al quartiere di Jobar, dove spari ed esplosioni non sono mai cessati.

Grazie all’aiuto delle truppe libanesi di Hezbollah e delle formazioni sciite giunte dall’Iraq e forte delle armi russe e delle strategie militari dei pasdaran iraniani, dal dicembre scorso il regime ha strappato alle opposizioni ampie zone del Paese. Sul Qalamoun, la montagna dell’Antilibano che divide la Siria dalla valle della Bekaa libanese, sventolano le bandiere a due stelle dei lealisti dopo le offensive militari che hanno riconquistato Yabroud, la zona cristiana del Krac dei Cavalieri (il grande castello dell’epoca crociata), al-Qusair e Adra. Da quest’ultimo paese, a 40 chilometri da Damasco, erano giunti i racconti degli ultimi orrori commessi dai fondamentalisti: «Ho visto uomini gettare nel fuoco alcuni dipendenti di un forno pubblico in quanto “servi di Assad”. Ho visto sgozzare decine di persone, cristiane e musulmane, e ho visto appendere le loro teste a un albero di Natale. Ho visto uomini tagliare la gola dei figli di una donna colpevole di aver provato a nasconderli. È questa la libertà che vogliono?», racconta una donna sulla quarantina davanti a un capannello di persone nel cortile della farmacia di Santa Croce, a Damasco. È seduta su una sedia e un raggio di sole le illumina gli occhi che si abbandonano alle lacrime quando ammette di aver mandato i suoi figli a rovistare nella spazzatura: «Si sono salvati perché ho insegnato loro qualche verso del Corano e quindi sono riusciti a fuggire con me da Adra».

A DAMASCO, SCHIERATI
La maggioranza dei cristiani
di Damasco e dintorni non ha dubbi a schierarsi a fianco del regime e dell’esercito. La propaganda di Stato enfatizza la necessità di salvare la Siria dai «terroristi» e le testimonianze che giungono dalle città del Paese in mano ad al-Nusra o allo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isis) hanno un impatto maggiore dei bombardamenti, degli arresti e degli assedi. Padre Paolo Dall’Oglio è scomparso da oltre un anno e di altri due vescovi ortodossi, Yohanna Ibrahim e Bulos Yazigi, non si hanno notizie da aprile 2013. «La nostra gente ha paura perché pensa che se un vescovo è stato rapito chissà cosa può succedere alle persone normali - osserva dietro l’anonimato un prete del Patriarcato siro-ortodosso di Bab Touma, sulla cui facciata campeggiano le gigantografie di padre Ibrahim e padre Yazigi -. C’è chi vuole prendere le armi e difendersi e chi vuole lasciare la Siria. È difficile far cambiare loro idea quando ci sono 3.800 famiglie siriache sfollate, vescovi rapiti e continue denunce di persecuzioni contro i cristiani».
Damasco è sotto assedio da qualsiasi punto la si guardi. Gran parte del centro è tornato nelle mani dei lealisti e gli abitanti provano a recitare una vita normale, tenendo i negozi aperti, andando a pranzare nei ristoranti e organizzando il traffico con semafori e vigili. Il rumore di esplosioni e scontri a fuoco arriva dalle periferie. Bab Touma, che comprende il suq più grande d’Oriente, è un dedalo di stradine ciottolose dove si affacciano vecchie case sbilenche e gli abitanti si aggirano laboriosi fra botteghe e negozi. Qui vive e lavora la maggioranza dei cristiani: «Quando tutti i siriani erano 4 milioni, gli armeni erano 230mila, ora che i siriani sono 17 milioni gli armeni sono solo 80mila - spiega il prete della comunità fra una stretta di mano e l’altra ai suoi fedeli durante una visita al cimitero -. La fuga è cominciata ben prima della guerra, ma questa tragedia non riguarda solo i cristiani. Sono i musulmani a soffrirne di più, perché loro sono la maggioranza».

VERSO LO STALLO
In occasione
delle elezioni centinaia di profughi hanno voluto far ritorno dal Libano alle loro case, nonostante il governo di Beirut avesse chiaramente dichiarato di essere indisponibile a una nuova accoglienza: «L’esercito sta conquistando posizioni e anche se è tutto distrutto, per un siriano è più dignitoso piantare una tenda sul proprio suolo piuttosto che su quello straniero», spiegano i soldati di pattuglia a Damasco. Gli accordi di pacificazione fra le truppe ribelli e il regime permettono alle famiglie di fare ritorno a casa, come è accaduto a Homs, ma il dramma degli sfollati interni è ben lontano dall’essere risolto: «Solo oggi da noi sono arrivate 300 nuove famiglie a cui offriamo pranzo e cena. Man mano che i combattimenti si spostano vediamo flussi provenire da nuove città», spiega Ra’id, custode della parrocchia melchita di Jaramana, città a mezz’ora dalla capitale, famosa per aver accolto migliaia di profughi iracheni nel 2003.

Centri della Caritas, dei gesuiti, Patriarcati di tutte le confessioni sono mobilitati giorno e notte per distribuire quel poco di aiuti che riescono a varcare gli sbarramenti della guerra. A fine gennaio anche il campo palestinese di Yarmuk ha potuto finalmente ricevere viveri e coperte. Da molti mesi sotto l’assedio dalle forze di Damasco, Yarmuk è uno scheletro rumoroso che custodisce i corpi di almeno una dozzina di bambini, morti di fame nell’indifferenza del mondo esterno.

Bashar al-Assad e i suoi fedelissimi sono riusciti a ricostruire il cordone vitale che lega Damasco alla città di Latakia, sul mare, e alla costa abitata dagli alauiti di cui fanno parte, mentre il Nord è ancora un buco nero dove la guerra inghiotte qualsiasi cosa. A questo vortice di distruzione stanno tentando di sottrarsi i curdi e i siriaci della Jazira, regione a Nord-Est del Paese. Alcuni cristiani hanno deciso di scendere in campo con una polizia, il Sutoro, e una milizia, il Consiglio militare siriaco (Msf) di fanteria leggera. «Questa è la nostra terra e ci sentiamo uniti al popolo curdo nella lotta per l’indipendenza - spiega Barsom, un giovane cristiano siriaco -. Nel frattempo però col regime dobbiamo ancora venire a patti». Barsom è stato da poco eletto nel neonato parlamento della Rojava, il nome che i curdi danno alla regione nord-orientale della Jazira, in cui oggi sono la maggioranza. Pochi giorni dopo è stato arrestato e torturato dai poliziotti del regime.

«So che i miei genitori sono fieri di me e che quando escono di casa possono camminare a testa alta»: Losian ha 21 anni, il corpo tatuato con simboli cristiani e un tappeto con il disegno dell’ultima cena appeso sopra la testa. Da cinque mesi è un soldato del Consiglio militare siriaco, di base a Gharduka, insieme ad altri quattro ragazzi siriaci. Sommando le loro età si arriva a malapena a cento anni. Avevano una vita normale, adesso hanno già combattuto e ucciso: «Mentre sparavo non pensavo a cosa stavo facendo. Solo dopo che ho smesso  mi sono accorto di aver ammazzato quegli uomini, ma non mi sentivo in colpa», spiega Orom, 19 anni, che durante la battaglia nella vicina Tall Hamis ha attaccato una macchina del fronte al-Nusra. Questa è la vita che la Siria offre oggi ai suoi figli.
Andrea Milluzzi
Linda Dorigo


© FCSF – Popoli
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