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Un brutto clima
2 dicembre 2013

Catastrofi come quella dell'8 novembre nelle Filippine ci ricordano che preoccuparsi dell’ambiente, interrogarsi sulle scelte economiche e sul proprio stile di vita, è una questione di giustizia. L'editoriale del numero di dicembre di PopoliVai al sommario per leggere tutti i contenuti e per scoprire come acquistare questo fascicolo o abbonarti.
 

Gli eventi climatici estremi sono direttamente connessi all’azione dell’uomo, al suo modo di produrre e consumare, al suo stile di vita, oppure rientrano nell’imprevedibilità della natura, di cui l’umanità non è responsabile? È una domanda che da anni ritorna puntuale tanto nella comunità scientifica quanto nell’opinione pubblica.

Ce lo si chiede, attoniti, soprattutto davanti a catastrofi come quella dell’8 novembre, quando in poche ore il tifone Haiyan - il più potente mai passato dalle Filippine - ha sconvolto la parte centrale dell’arcipelago. Oltre 5mila i morti, quasi 20mila i feriti e almeno 4 milioni gli sfollati (tutte cifre destinate a crescere man mano che verranno raggiunte zone inizialmente trascurate dai soccorsi piuttosto caotici).

Una risposta scientificamente certa non c’è ancora. Esistono però misurazioni sempre più precise, serie di dati ormai lunghe e dunque attendibili, centri di ricerca autorevoli. Un esempio è l’Ipcc, organismo nato nel 1988 per volontà dell’Organizzazione metereologica mondiale e dell’Onu, Nobel per la Pace nel 2007. In settembre l’Ipcc ha pubblicato il quinto Rapporto sui cambiamenti climatici, da cui emerge che gli ultimi tre decenni sono stati i più caldi dal 1850, che la superficie degli oceani si è riscaldata di quasi mezzo grado in 40 anni e il loro livello è cresciuto di 19 centimetri in un secolo, che la concentrazione di anidride carbonica è aumentata del 40% rispetto all’epoca preindustriale.

Il Rapporto definisce «estre­mamente probabile» che l’influenza umana sia la causa principale dell’incremento della temperatura del globo e che quest’ultimo fenomeno sia connesso agli eventi climatici estremi (cicloni, tifoni, inondazioni).
Un’altra statistica significativa riguarda le vittime. Secondo una ricerca del think tank ambientale Germanwatch, i Paesi colpiti con più frequenza e con i maggiori danni (umani e materiali) dai fenomeni climatici estremi sono poveri o in via di sviluppo. Noi ricordiamo gli uragani che colpiscono la Florida o New York perché in quei casi la copertura mediatica è ampia, ma i tre Stati in cima alla classifica sono Haiti, Pakistan e le stesse Filippine. Come dire che le colpe dei Paesi industrializzati e di quelli emergenti - i maggiori responsabili delle emissioni di CO2 - ricadono su popolazioni che da quello sviluppo sono perlopiù tagliate fuori.

Il che ci ricorda che preoccuparsi del clima, avere cura dell’ambiente, interrogarsi sulle scelte economiche e politiche e sulle loro ricadute è anzitutto una questione di giustizia. È proprio per questo, tra l’altro, che la Chiesa non smette di sottolineare l’urgenza di questi temi e la loro pertinenza con un modo evangelico e cristiano di abitare il mondo.
L’intensità degli allarmi rende ancora più stridente e scandaloso l’immobilismo dei governi, al solito paralizzati da veti incrociati e interessi di parte. Dopo il sostanziale fallimento del protocollo di Kyoto (1997) e dei successivi summit (l’ultimo a Varsavia, in novembre), prevale già lo scetticismo in vista dei risultati che si potranno ottenere al vertice di Parigi del 2015.

Eppure le scelte da fare sono chiare e non più rinviabili. Come diceva un cartello esposto nei giorni di Haiyan: «Non cambiamo il clima, cambiamo politiche».

Stefano Femminis


 
© FCSF – Popoli