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Un mondo di muri, 25 anni dopo Berlino
6 novembre 2014
Il 9 novembre del 1989 cadeva il muro più famoso del Novecento. Ma le speranze di un mondo senza divisioni sono state ampiamente deluse: nell'inchiesta che esce nel numero di novembre la testimonianza di un grande inviato, tre reportage dal campo, una riflessione biblica e una mappa di tutte le barriere oggi presenti nel mondo. Qui anticipiamo il pezzo di Antonio Ferrari, del Corriere della Sera, e una riflessione biblica del gesuita Giuseppe Trotta. 


Nell’autunno dell’anno scorso sono stato qualche giorno a Berlino, per partecipare a un incontro con colleghi mediorientalisti. Confesso che è stato emozionante, perché era la prima volta che vedevo Berlino riunificata, mentre avevo conosciuto abbastanza bene quella divisa. Mi sono stupito, e sono quasi rimasto scioccato, perché non riuscivo più a trovare i segni di quel lugubre muro, che in un passato apparentemente vicino ma in realtà lontanissimo, avevo attraversato cinque volte, da Ovest a Est, rientrando prima di mezzanotte come Cenerentola. 

L’ultima volta, al Checkpoint Charlie, fui costretto a una lunga attesa in un gabbiotto, perché il collega che si trovava con me, Giuseppe Canessa de Il Giorno, aveva la fotografia scollata sul passaporto. Sul Muro di Berlino, e sul suo crollo, ho scritto un libro, dall’inequivocabile titolo Sgretolamento. Voci senza filtro (Jaca Book, 2013), per indicare che l’abbattimento - di cui erano state segnalate molte avvisaglie - certificava la fine della separazione ideologica tra due mondi.

Pensavo che la fine del Muro avrebbe significato il tramonto di tutti i muri del mondo. Che ingenuità! Dopo quell’entusiasmante fine del 1989, i muri invece di crollare sono cresciuti, numericamente e qualitativamente. Quelli del passato sono stati più o meno pensionati, come quello «light» di Nicosia, che comunque continua a dividere l’isola di Cipro, o quello di Gorizia, che ai tempi della Jugoslavia seguiva i binari di una linea ferroviaria. Ma sono i muri del presente che fanno più impressione.

Frequentando il Medio Oriente, e in particolare Israele e la Palestina, non posso non cominciare dalla muraglia altissima che separa i due contendenti: anzi, impedisce che vi possa essere quella contaminazione umana e sociale che dovrebbe essere il prologo di una futura e consolidata convivenza. È pur vero che la muraglia ha sicuramente ridotto le infiltrazioni e le statistiche dicono che gli attentati sono drasticamente diminuiti. 

Ma è cresciuta, invece di sedarsi, una rabbia che odora di apartheid, di umiliazioni, e quindi di propositi di vendetta. La Striscia di Gaza di muri o similari ne ha addirittura due: uno con Israele, l’altro con l’Egitto. Di fatto i palestinesi, ammassati su quel minuscolo lembo di terra, vivono in una prigione a cielo aperto. Non stupisce che persino i fondamentalisti di Hamas siano in difficoltà, attaccati dagli estremisti dello Stato islamico, e da altre subordinate fanatiche e parimenti pericolose, che stanno facendo proseliti anche laggiù.

È così contagiosa la febbre del muro e il bisogno protettivo di un ghetto da suggerire analisi spietate: muro è sintomo di debolezza, di fragilità e di complessi difficili da contrastare. Al punto che, dove non si può costruire fisicamente, si erige la barriera virtualmente, immaginandone la difesa con strumenti di morte pronti ad annientare. Come accade in Iraq, in Siria, al confine con la Turchia. Ecco, arriviamo ai Balcani. La porta dell’Unione europea, prima, era considerata la Grecia, il più sudorientale dei Paesi dell’Unione. Per questa ragione, via Turchia, un flusso continuo di immigrati aveva spinto Atene a creare uno sbarramento. 

Ora, la porta dell’Unione europea, dopo le ultime adesioni, si è spostata ancora più a Est, in Bulgaria. Ecco perché lo Stato balcanico ha costruito una cortina di ferro (sì, proprio una cortina di ferro, di sovietica memoria) lunga 33 chilometri e alta tre metri per contenere il numero di coloro che chiedono un passaggio o un asilo che un Paese povero come la Bulgaria non può garantire.

Il mondo, dopo la caduta del muro di Berlino, è diventato assai più instabile. I conflitti si sono moltiplicati. La gente fugge dalla violenza, chiede di poter vivere dignitosamente e senza paura. È un loro sacrosanto diritto. Oltre il muro del mare, gli immigrati libici, siriani, palestinesi, sognano di raggiungere l’Italia, e da qui gli altri Paesi europei. A un quarto di secolo dal tramonto del comunismo, l’auspicio è uno solo: che la solidarietà prevalga sull’egoismo. Dico di più. È nel nostro interesse di europei sostenere l’urgenza della solidarietà. Alcuni studiosi ritengono infatti che, per sopravvivere, l’Ue - anziana e stanca - nei prossimi 30 anni avrà bisogno di 100 milioni di nuovi immigrati.
Antonio Ferrari 
Editorialista del Corriere della Sera
© FCSF – Popoli