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Articoli trovati:251
  • Un recente documento vaticano indica un percorso per uscire dalla crisi: ridare una base etica all’economia, in uno spirito di solidarietà globale, e alla finanza trasformata in tecnica di speculazione.
    Fascicolo: 
    dicembre 2011
  • Per gli scandali degli abusi sui minori e le coperture delle autorità ecclesiastiche, Dublino ha deciso di chiudere l'ambasciata in Vaticano. Un sintomo del cambiamento nelle relazioni tra Irlanda e Santa Sede. La riflessione di Brian Lennon, gesuita e saggista.

    Data: 
    1 dicembre 2011
  • È un problema che interpella le coscienze, la politica e la vita di ognuno. In un momento così grave per la crisi economica che viviamo, mentre si tagliano risorse, perché spendere 20 miliardi di euro per nuovi aerei da guerra? Fosse anche vero, e non è vero, che la produzione di cacciabombardieri porta lavoro, resta una domanda fondamentale. Come conciliare questo progetto con l’art. 11 della nostra Costituzione e con il messaggio evangelico?
    Fascicolo: 
    novembre 2011
  • In Europa e negli Usa li si compra su internet, nel Sud del mondo nei mercati ambulanti, ma il boom dei farmaci contraffatti è planetario. Mentre però nei Paesi ricchi si studiano le contromisure, in Africa si muore. Radiografia di una piaga globale
    Fascicolo: 
    novembre 2011
  • Anche a Taiwan arriva la protesta degli indignados, sulla scia delle manifestazioni di New York: il luogo scelto è intorno al simbolo del capitalismo nell’isola, il Taipei 101 building. Come mostra il video di eRenlai, rivista online dei gesuiti di Taiwan, la protesta nasce dall’aumento della disoccupazione, dei prezzi delle case, ma anche dalla solidarietà verso gli immigrati (per accedere al sito di RenLai clicca qui)
  • On Monday, the Vatican will release a document on the reform of the international financial system which will be to the left of every politician in the United States. It will be closer to views of the «Occupy Wall Street» movement than anyone in the U.S. Congress. It will call for the redistribution of wealth and the regulation of the world economy by international agencies. Not only will it be to the left of Barack Obama, it will be to the left of Nancy Pelosi.
    It is easy to predict what will be in the document by simply looking at what Pope Benedict XVI has said in the past.

    Data: 
    21 ottobre 2011
  • Le carestie nel Corno d’Africa non possono essere attribuite solo al clima, ma anche a manovre speculative e alla vendita di appezzamenti di terreno a multinazionali o a Stati stranieri. Il commento di un operatore di una Ong.

    Data: 
    13 otobre 2011
  • L’esistenza di luoghi dove si svolgono attività finanziarie non trasparenti e incontrollate, che permettono a persone e imprese di nascondere i propri introiti, priva i Paesi più poveri di almeno 125 miliardi di euro di entrate all’anno. A tanto ammonta l’evasione fiscale delle multinazionali che colpisce i bilanci dei Paesi del Sud del mondo e corrisponde quasi a una volta e mezza l’ammontare complessivo dell’aiuto pubblico allo sviluppo che questi ricevono dai Paesi ricchi. Naturalmente esiste anche un danno per i Paesi ricchi che hanno forti deficit di bilancio e che vengono privati dei loro strumenti di redistribuzione. Solo in Francia, la frode fiscale distoglie dal bilancio dello Stato dai 40 ai 50 miliardi di euro (il doppio del deficit del sistema di protezione sociale). Nella crisi finanziaria iniziata nel 2008 queste distorsioni si sono fatte ancora più gravi.

    L’EDEN DELLE MULTINAZIONALI
    Non deve sorprendere che nel mondo cattolico ci siano persone che si sentono chiamate a occuparsi di giustizia fiscale e di destinazione universale dei beni e che perciò si mobilitano contro i paradisi offshore. La Chiesa cattolica, come altre Chiese cristiane, ricorda a ciascuno il dovere di contribuire al finanziamento delle spese pubbliche, meccanismo senza il quale le società sarebbero solo giungle dominate dalla legge del più forte.
    Paradisi fiscali, giudiziari e normativi sono i buchi neri della finanza globale. Non si limitano a qualche isoletta esotica, ma si trovano anche nel cuore di alcune metropoli finanziarie. Offrono il segreto bancario, oppure la possibilità di creare società di comodo che celano il nome dei veri proprietari, un fisco debole per i non residenti. Altre non collaborano con i giudici stranieri che danno la caccia a chi vuole fuggire al fisco, riciclare denaro originato da crimini e corruzione, aggirare le regole internazionali. Spesso «catturano» quote di sovranità di Paesi piccoli e fragili che hanno solo questo come vantaggio comparativo a livello internazionale: possono commerciare la propria sovranità vendendola al miglior offerente, cioè le multinazionali e i loro intermediari finanziari, le grandi banche o i grandi revisori contabili (i cosiddetti Big 4: Kpmg, Deloitte, Ernst & Young, PwC). Appoggiarsi alla sovranità di un Paese consente di aggirare obblighi fiscali e regolamentari, così nascono sedi di società in luoghi che non hanno niente a che vedere con la produzione della società stessa. Due terzi degli investimenti destinati a Cina e India, ad esempio, arrivano da paradisi fiscali, come Mauritius, le isole Cayman o le isole Vergini britanniche. In queste ultime, dove vivono 25mila persone, sono registrate 830mila società. Ma dove sono i loro lavoratori?
    Le multinazionali fanno transitare nei paradisi fiscali metà del commercio mondiale, in modo da fare apparire inferiori i loro profitti e dunque pagare meno. Questo è ancora più facile per le società che non traggono profitti dalle fabbriche, come i giganti delle nuove tecnologie (Google, Microsoft, iTunes, eBay), le grandi banche, ecc.  La concorrenza fiscale sleale spinge l’insieme degli Stati a moltiplicare le agevolazioni per attirare gli investitori. L’imposta sulle società è già scesa mediamente a livello mondiale dal 37% del 1993 al 25% del 2009. Benedetto XVI, nell’enciclica Caritas in Veritate, ha scritto che «non è però lecito delocalizzare solo per godere di particolari condizioni di favore, o peggio per sfruttamento, senza apportare alla società locale un vero contributo».
    I Paesi poveri sono le principali vittime di questi meccanismi. Alcune ricerche del centro di ricerca Global Financial Integrity (Gfi) di Washington hanno mostrato che in un anno circa 800 miliardi di euro sono illecitamente distolti dai Paesi in via di sviluppo. Che si tratti di proventi della corruzione (3-5%), del crimine organizzato (30-33%) o di introiti non dichiarati che corrispondono all’evasione fiscale (60-65%), questi fondi finiscono nelle banche occidentali e nei paradisi fiscali.
    Cifre di questo calibro sono indicate anche in un documento del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace (approvato dalla Segreteria di Stato) del novembre 2008 che, citando stime del 2005 ,punta il dito contro i centri finanziari offshore: «Potrebbero rendere circa 860 miliardi di dollari all’anno e corrisponderebbero a un mancato introito fiscale di circa 255 miliardi di dollari: più di tre volte l’intero ammontare dell’aiuto pubblico allo sviluppo da parte dei Paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse)».
    Da alcuni anni c’è una mobilizzazione per l’aumento di questi aiuti. Il 2000 ha visto la Campagna del Giubileo per la riduzione del debito che strozza la spesa sociale nei Paesi poveri. Autorevoli voci cattoliche si sono levate contro la corruzione, il riciclaggio del denaro sporco o il dirottamento dei fondi per i poveri. In Africa, Simon Tonyé Bakot, vescovo di Yaoundé (Camerun), e Louis Portella, vescovo di Kinkala (Congo Brazzaville), si sono pronunciati in maniera molto chiara perché i soldi sottratti da alcuni dirigenti politici tornino ai rispettivi Paesi. Di fatto hanno denunciato i paradisi fiscali.

    MOBILITAZIONE INTERNAZIONALE
    Oggi, tra le realtà più attive contro i paradisi fiscali ci sono le Ong che si occupano di sviluppo. Un esempio viene dalla Francia, dove una piattaforma di organizzazioni e gruppi, cristiani e laici (cfr www.stopparadisfiscaux.fr), si è mobilitata sui paradisi fiscali. È guidata in particolare da Ccfd-Terre solidaire e Secours catholique, la Caritas francese, oltre ad alcuni ordini religiosi più sensibili (tra cui i gesuiti). L’azione che svolge è di informazione e sensibilizzazione, nonché di lobby presso il governo, l’Ocse e l’Ue. Quando nel 2008, dopo il fallimento di Lehman Brothers, il presidente Nicolas Sarkozy dichiarò che bisognava incominciare a mettere fine ai paradisi fiscali, queste organizzazioni gli fecero notare che Andorra e Monaco, ai confini francesi, erano ancora nella «lista nera» dei paradisi fiscali. Con la rivista Pèlerin fu lanciata una petizione che raccolse decine di migliaia di firme e qualche tempo dopo il governo francese promise di intervenire sui due microStati in questione.
    Anche in Germania i cattolici si sono mossi con l’organizzazione Misereor; in Gran Bretagna sono attivi gruppi protestanti, in Italia la spinta viene maggiormente da Ong laiche. Anche in America Latina c’è sempre più interesse per la giustizia fiscale. Nei Paesi in via di sviluppo, movimenti cristiani hanno iniziato a studiare sempre più a fondo come funziona il bilancio dello Stato.
    Il Vaticano è stato spesso incluso nelle liste di Paesi che non garantiscono sufficiente trasparenza in campo finanziario e la sua banca è stata indicata come una possibile sede di riciclaggio di denaro sporco. La Santa Sede per molto tempo non si è preoccupata dell’origine dei fondi che transitavano al suo interno, ma lo scorso dicembre Benedetto XVI ha stabilito che il Vaticano si adeguerà alle regole del Gafi, il Gruppo di azione finanziaria internazionale contro il riciclaggio di capitali. Questo organismo è stato creato dal G7 nel 1989 e finora ha elaborato in tutto 49 raccomandazioni, alcune delle quali interessano banche, casinò, agenzie immobiliari e tutte quelle imprese in cui transitano fondi sui quali è possibile richiedere di accertare la provenienza. Questa decisione del papa è un segno incoraggiante.    
    Jean Merckaert
    Caporedattore di Projet,
    rivista del Ceras, centro di studi
    sociali dei gesuiti francesi
    Data: 
    3 ottobre 2011
  • Anonimato, conti cifrati, prestanome: i paradisi fiscali sono fortezze impenetrabili. Difficile quindi carpirne i segreti e comprendere con esattezza quale sia il giro d’affari che gravita intorno a questi centri finanziari. Esistono solo alcune stime elaborate nel 2010 dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), secondo le quali nei quaranta paradisi fiscali (ma il loro numero varia a seconda dei differenti criteri di classificazione) sarebbero investiti circa 11.500 miliardi di dollari. Cioè il doppio di quanto i governi di tutto il mondo hanno investito negli ultimi due anni per far fronte alla crisi economica e finanziaria mondiale. Nei paradisi fiscali opererebbero 10mila istituti di credito.

    Secondo il fisco statunitense, ogni anno 100 miliardi di dollari (71 miliardi di euro) vengono sottratti alle casse di Washington per essere investiti in centri offshore. Secondo la Banca d’Italia i capitali italiani all’estero non dichiarati nel 2008 ammontavano a 140 miliardi di euro. Di questi solo una sessantina sarebbero rientrati in Italia grazie al cosiddetto «scudo fiscale».
    I paradisi fiscali danneggiano anche i Paesi del Sud del mondo. Secondo Christian Aid, una Ong britannica di matrice protestante, i Paesi in via di sviluppo perdono a causa della fuga di capitali circa 160 miliardi di dollari, molto più di quanto ricevono in aiuti umanitari.

    Ma qual è la provenienza dei capitali investiti nei paradisi fiscali? Secondo l’Ocse il 45% è frutto di evasione o elusione fiscale, il 15% di «finanza politica» (i proventi della corruzione e della concussione o i «tesori» dei vari dittatori del Terzo Mondo), il 40% deriverebbe da traffici illeciti: proventi del commercio di stupefacenti, del traffico d’armi o del terrorismo.

    Data: 
    3 ottobre 2011
    Tag: 
  • Vera Mshana è una ricercatrice di Tax Justice Africa, una Ong che promuove un sistema di tassazione equo e progressivo nel continente africano. Le abbiamo chiesto di fare il punto sulla presenza dei paradisi fiscali in Africa e su quali iniziative stia organizzando la società civile per chiedere maggiore trasparenza fiscale.

    Quanti paradisi fiscali ci sono in Africa?
    Il Fondo monetario internazionale ha riconosciuto come centri finanziari offshore: Mauritius, Sey­chelles, Liberia, Gibuti e Tangeri (Marocco). Le Comore (l’isola di Anjouan), Botswana e Somalia possono essere anch’essi considerati paradisi fiscali. Il Ghana stava per adottare un regime fiscale privilegiato, ma poi ha rinunciato.

    Quali sono i vantaggi fiscali garantiti agli investitori?
    Questi centri offrono molti servizi: bancari e assicurativi, gestioni patrimoniali, fondi fiduciari, pianificazione fiscale e consulenza alle società multinazionali.
    Ciò che rende conveniente investire in questi centri è che questi servizi sono forniti in un sistema di ampie esenzioni fiscali (nessuna imposta sul capital gain, nessun tributo sui dividendi o sugli interessi, né sugli utili) e una normativa poco severa in materia di contabilità.
    Va detto inoltre che questi paradisi fiscali offrono l’anonimato finanziario ai clienti, nascondendo di fatto i reali protagonisti (azionisti o proprietari) delle attività commerciali.
    Ciò permette a questi clienti di nascondere i loro redditi e ridurre il carico fiscale nel Paese nel quale vivono o nei Paesi dove il reddito è prodotto.

    Chi investe nei paradisi fiscali?
    Investono gli istituti bancari europei e nordamericani, ma anche persone molto ricche e, in generale, le multinazionali, come per esempio la SabMiller (il secondo produttore mondiale di birra) o la banca Barclays, che era fortemente coinvolta nella creazione del centro finanziario in Ghana.

    Quali effetti producono le legislazioni fiscali agevolate sulle economie dei paradisi fiscali?
    I paradisi fiscali producono effetti negativi, in particolare: 1) I sistemi fiscali locali tendono a fare leva unicamente o prevalentemente sull’imposizione indiretta, che colpisce maggiormente la fasce più deboli della popolazione. 2) Viene creata poca occupazione, considerato che molti posti di lavoro riguardano l’industria dei servizi finanziari e che questi posti sono occupati quasi tutti da stranieri. 3) Si creano grandi divari di reddito nella popolazione. 4) L’economia locale è poco o per nulla differenziata.

    La società civile come sta combattendo il fenomeno dei paradisi fiscali?
    I paradisi fiscali vanno combattuti sotto due aspetti: per l’impatto che essi hanno sulle economie delle altre nazioni (considerato che possono essere utilizzati per il riciclaggio di denaro sporco e per l’evasione fiscale) e per l’impatto che hanno sulle economie locali. L’attenzione mondiale e le campagne internazionali hanno prodotto effetti positivi sotto il primo aspetto, meno sotto il secondo, che credo sia il più problematico.
    Come Tax Justice Network notiamo che in Africa il dibattito sulla politica fiscale e sulla riforma fiscale è stato in gran parte rimosso. La tassazione è vista come una misura imposta dall’esterno, prima dai colonizzatori, poi dai Programmi di aggiustamento strutturale. Solo recentemente si è registrata una maggiore attenzione su questi temi, favorita dalla volontà di controllare la spesa pubblica. Anche se la tassazione è considerata sempre una questione tecnica, estranea al dibattito pubblico.
    La nostra organizzazione è molto coinvolta sul tema dei paradisi fiscali e partecipiamo alla campagna mondiale che chiede la loro fine e profonde riforme della politica fiscale. In particolare, noi chiediamo una riforma della contabilità. Auspichiamo che venga adottato il sistema chiamato «Paese per Paese», che impone alle multinazionali di stilare, oltre ai bilanci consolidati, anche rendiconti delle attività economiche svolte nelle singole nazioni e di esplicitare i nomi delle società ad esse collegate in quelle stesse nazioni. La seconda riforma che chiediamo è la creazione di una piattaforma, gestita dalle Nazioni Unite, che permetta lo scambio automatico di informazioni fiscali e finanziarie. Questa piattaforma dovrebbe permettere alle Agenzie delle entrate di ogni Paese di ottenere le informazioni necessarie a smascherare possibili elusioni (o evasioni) dei contribuenti.
    La nostra organizzazione sta poi facendo pressioni sul governo sudafricano affinché metta all’ordine del giorno dell’incontro del G20, che si terrà il 3 novembre a Cannes (Francia), il tema dell’elusione e dell’evasione fiscale.
    Enrico Casale

    Data: 
    3 ottobe 2011
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