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La carità al fronte

«È la madre di tutte le guerre, una terra martoriata ma in un certo senso creativa, perché a volte sa trarre insegnamento dal dolore, miracolosamente». Così vede il Medio oriente Silvio Tessari, responsabile di Caritas italiana per il Medio oriente e il Nord Africa. Una lunga esperienza nella cooperazione allo sviluppo in Africa centrale, mesi passati nel deserto con i tuareg e in Somalia, per poi occuparsi di quella regione del mondo, tra il Marocco e l’Iran, che passa per la Palestina e l’Iraq.

Caritas è arrivata in queste zone negli anni Settanta, ma ha messo radici e condotto progetti diversi in base a due variabili: il grado di libertà del Paese ospitante e la presenza o meno di situazioni di guerra. Partendo da Caritas Gerusalemme (il nome non è scelto a caso): qui sono attivi da decenni un discreto numero di cristiani, ma operano sempre sul filo del rasoio data la delicatezza degli equilibri in continuo movimento.

«In Libano invece, ad esempio - spiega Silvio -, la nostra organizzazione ha potuto svolgere le sue attività di assistenza ad anziani, bambini e disabili in un clima istituzionale favorevole. Lo stesso è accaduto nell’Iraq di Saddam Hussein, o in Siria, dove scuole e ospedali gestiti da congregazioni religiose hanno operato senza difficoltà. Prima della guerra, però: da allora tutto è precipitato, facciamo fatica anche a tenere i contatti con gli operatori locali, si vive nell’insicurezza più totale, per cui si prova, a fatica, esclusivamente a soddisfare i bisogni primari. Continuo a pensare che non siamo realmente consapevoli della gravità della situazione siriana: ce lo dimostra la difficoltà con cui proviamo a raccogliere fondi per l’emergenza tramite le Caritas diocesane. Forse non ci rendiamo conto che nemmeno tutte le intifada palestinesi messe insieme hanno causato tanti morti quanto la guerra civile in Siria».

Ed è proprio la guerra, per chi si occupa di cooperazione, a cambiare le carte in tavola: ci si concentra sulla fornitura di medicine ai feriti, sugli alimenti per l’infanzia contro la denutrizione, mettendo in secondo piano gli interventi a sostegno dell’istruzione scolastica, le cooperative artigiane o di sviluppo rurale, le attività di reinserimento professionale. Nel 2012 i fondi raccolti nelle diocesi italiane e destinati a questi Paesi sono stati quasi 1,2 milioni di euro.

Ma questa terra insegna anche come dal dolore si rinasce. È successo in Iran dieci anni fa, a Bam, dove un terremoto fortissimo provocò decine di migliaia di morti. Allora è arrivata la Caritas, in un Paese dove i cristiani sono pochissimi, e nel tempo ha ottenuto dalle autorità e dalla popolazione una tale fiducia da potersi permettere di utilizzare una croce sullo stemma senza essere accusata di proselitismo. Una rete di sole sei persone, un piccolo granello di senape, è riuscita a coinvolgere Ong locali e a innescare un processo di cooperazione, a partire dalla prima cordata di infermieri attiva tra i feriti, che secondo Silvio ha del miracoloso. «Un notabile sciita - racconta - di fronte ai nostri interventi di inserimento, vedendo disabili in carrozzina che alzavano la saracinesca di un negozio aperto con il nostro microcredito, mi disse: “Ci avete insegnato a promuovere i poveri, non solo ad assisterli, questo lo facevamo già”».

E la difficoltà più grande? «Promuovere attività di pace. È la cosa più difficile da fare, con tutti i gruppi, ebrei, cristiani, musulmani. Nel Medio oriente pieno di muri gettare ponti resta ancora l’attività più complessa».

Elisa Costanzo

 

INVENTIVA CONTRO POVERTÀ
Antoine Audo, gesuita e vescovo caldeo di Aleppo, è anche presidente della Caritas siriana. «Pochi giorni fa - ha scritto a metà di maggio - camminavo nel quartiere di Souleimanié, nella mia città. La gente era stupita di vedermi in giro, temevano che potessi essere rapito. I sequestri di due preti e due vescovi hanno traumatizzato i cristiani. Ho visto i ragazzini chiedere l’elemosina: ad Aleppo quattro su cinque non vanno più a scuola. Caos e povertà ci circondano: nella zona di Miassar non ci sono state acqua ed elettricità per tre mesi: la gente non aveva nemmeno i soldi per le candele. Davanti a questa povertà la Caritas non si arrende: dobbiamo stare uniti, organizzarci e proseguire. Il nostro lavoro deve essere inventivo. La carità troverà la sua strada».

© FCSF - Popoli, 1 giugno 2013