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Lampedusa, il paradiso

Sono stata un anno in Libia, quel paese schifoso, non mi vengono in mente altre parole per definirlo. È un vergogna per tutta l’Africa.
Ho conosciuto le carceri di Kufra e Misurata, dove sono stata reclusa per mesi. Sono posti allucinanti, luoghi di tortura e violenza, dove non hai scampo. Non voglio parlarne, non so raccontare, non conosco le parole italiane per descrivere, e anche in amarico faccio fatica.

Eravamo decine e decine di donne tutte ammassate in una stanza piccolissima, ti offrivano la possibilità di farti la doccia con l’unico scopo di poter abusare di te. Con le ragazze che avevo conosciuto lì e che la disperazione rende presto amiche inseparabili, avevamo escogitato un modo per evitare gli assalti di quei maiali che stavano a guardia dei bagni: facevamo la doccia in tre, insieme, così c’erano meno probabilità di essere costrette a subire l’inferno.
Le mie vicine di cella passavano le ore a cancellare da mani e piedi le impronte digitali, si strofinavano sui polpastrelli una sostanza chimica che avrebbe impedito qualsiasi tipo di riconoscimento una volta giunte in Europa. Sognavano la Scandinavia e l’Inghilterra e avevano imparato che era fondamentale non farsi identificare all’arrivo in Italia o a Malta, dopo la traversata del Mediterraneo.

Del gruppetto di ragazze di cui facevo parte fui l’unica a rimanere ancora in carcere perché senza soldi. Le altre, corrotte le guardie, erano riuscite a scappare. Seppi mesi dopo che purtroppo l’imbarcazione su cui viaggiavano insieme era naufragata. Morirono tutti i passeggeri. I loro sogni erano svaniti così come le loro impronte mesi prima. Cancellati dal mare.

Quando seppi della tragica sorte delle mie compagne ero ancora in carcere. La notizia mi giunse attraverso una donna arrivata da poco in cella, parente di una delle vittime. Da allora giurai a me stessa e a Dio che se fossi arrivata viva in un qualsiasi posto in Europa non mi sarei più mossa da lì.

E così è stato: grazie a una cugina che vive in America, ho potuto avere i soldi per corrompere quelle maledette guardie e lasciare Kufra. Sono salita su un gommone con altre trenta persone che non conoscevo, non so nuotare e non avevo mai visto il mare prima di allora. Dopo l’esperienza del carcere in Libia la morte non mi faceva paura, almeno a qualcosa era servito l’orrore, mi ripetevo cercando di darmi coraggio durante la traversata.

Arrivai a Lampedusa e riaprii gli occhi. Li avevo chiusi all’inizio della traversata, due giorni prima. Vidi una donna che mi porgeva una coperta. Avevo una profonda ferita alla gamba che mi ero procurata in carcere, mi medicavano, mi disinfettavano, mi davano da bere, mi parlavano dolcemente e anche se non capivo nulla di ciò che mi dicevano, pensai: questo è il paradiso.

Testimonianza raccolta da
Fondazione Astalli

© FCSF - Popoli, 1 novembre 2014