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Liberare il crowdfunding
Nel 1996, nello spettacolo «Millenovecentonovantadieci», Corrado Guzzanti anticipava il senso di tante (non) relazioni su internet con una battuta. Il personaggio di Guzzanti si chiedeva in romanesco: «Se io ho questo nuovo media, la possibilità cioè di veicolare un numero enorme di informazioni, in un microsecondo, mettiamo caso a un abboriggeno dalla parte opposta del pianeta... ma il problema è: abboriggeno, ma io e te... che cosa se dovemo di’?».
Otto anni dopo negli Stati Uniti nasceva una non profit di nome Kiva, la cui missione è connettere le persone tramite prestiti per combattere la povertà, forte dell’aiuto di internet e di una rete mondiale di istituti di microfinanza. Dopo qualche anno, grazie a Kiva ho potuto rispondere al personaggio di Guzzanti: avevo qualcosa da dire all’«abboriggeno».

Per la verità lo sconosciuto e remoto soggetto protagonista dell’interazione con me non era in Australia, ma in Perù, e non era un uomo ma una donna. Lei, Tomasa, era (e spero sia ancora) una tessitrice, un’artigiana che viveva principalmente del frutto del proprio lavoro. Aveva bisogno di un prestito per avviare o migliorare la sua attività e io sono tra coloro che le hanno concesso questo prestito, insieme con statunitensi, tedeschi, svedesi, inglesi e altri, tra cui un australiano, del Queensland, dove vivono gli aborigeni, quelli veri.

Ecco, Tomasa e io ci siamo «detti cose»: lei aveva bisogno di un prestito, io ho deciso di concederle fiducia, lei l’ha ripagata restituendo il microfinanziamento nei tempi previsti. E, immagino, ha usato i soldi per comprare tessuti e colori, ha lavorato, venduto, guadagnato, reinvestito e così via. Insomma, credo e spero che abbia un’attività artigianale bene avviata e che continui, nonostante i suoi 67 anni.
Kiva rientra tra le forme di crowdfunding basate sul modello del lending, o prestito per l’appunto. Le altre forme di crowdfunding oggi note sono i modelli donation, reward, equity e royalty based (cfr Popoli, n. 3/2014).

Tomasa è entrata in contatto con me tramite una piattaforma di lending (Kiva); la mia unica possibilità di sostenerla era quella di prestarle i miei soldi per realizzare la sua attività economica. In effetti la mia non è stata una vera e propria scelta. Avrei voluto sapere di più di Tomasa, anche poco di più, e magari avrei avuto piacere di donarle i soldi che le ho prestato, senza volerli indietro (crowdfunding donation based). Capisco e apprezzo il modello per cui se il finanziamento serve a sostenere l’attività commerciale di una persona allora è bene che rientri nelle logiche dell’economia - per quanto agevolata, per esempio il prestito è a interessi zero - e non della beneficenza, però avrei preferito avere scelta.

Oppure, potendo scegliere, magari avrei preferito inviare a Tomasa i miei 25 dollari in cambio di una tovaglia fatta da lei con gli splendidi colori e tessuti naturali del Perù, con spedizione a casa compresa nel «prezzo» (crowdfunding reward based). Questa opzione non sarebbe stata la mia preferita, però, perché in realtà avrei voluto investire nell’attività di Tomasa, acquistare 25 dollari di quote di partecipazione nella sua attività, diventando suo socio (crowdfunding equity based). Certo, con tutti i rischi annessi e connessi: per ragionare con le categorie classiche dell’economia d’impresa, francamente non credo che avrei visto dividendi, ma mi sarei sentito di condividere ancora di più il destino di Tomasa, la sua realtà, partecipando al suo benessere.
Un’ulteriore opzione sarebbe stata la concessione del microfinanziamento a fronte di una condivisione pro quota degli utili nel tempo (crowdfunding royalty based): un modo per restare imprenditorialmente vicino a Tomasa, senza rischi per me, sentendomi coinvolto e condividendo, fino a toccarli con mano, gli auspicati guadagni, fossero anche pochi centesimi.

Tutto questo per quanto riguarda me e le mie (non) scelte. A sua volta Tomasa, se avesse conosciuto e potuto scegliere tra tutte le forme di crowdfunding, magari sarebbe stata disposta ad aprirsi contemporaneamente a più tipi di sostegno. Invece tutti noi che abbiamo aderito al progetto siamo stati dei lender, e lei una borrower. Nessuna scelta.
E c’è un’altra riflessione che mi interessa sollevare: dopo il prestito e la regolare restituzione, non ho più saputo nulla di Tomasa. Peccato, perché avrei voluto con piacere essere un suo cliente. Avrei potuto, nel mio piccolo, contribuire al buon andamento della sua attività artigianale, eppure, nonostante internet, non saprei come acquistare un suo prodotto.

È maturo il tempo per parafrasare la domanda del personaggio di Guzzanti: «Se io ho questo nuovo media, con la possibilità cioè di veicolare un po’ di soldi, in un microsecondo, mettiamo caso a un abboriggeno dalla parte opposta del pianeta... ma il problema è: abboriggeno, ma io e te... come facciamo a non farci imbrigliare in modelli rigidi e rigorosamente alternativi tra loro?!». Questa possibilità è da costruire. Un compito della cooperazione internazionale? Con l’aiuto di internet, si può fare.

Giovanni Vannini
@giovvan



 

© FCSF - Popoli, ottobre 2014