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Scavando la Bibbia

A prima vista potrebbe sembrare un «cervello fuggito all’estero», ma vista da vicino è molto di più. Trentaquattro anni, milanese trasferita a Roma, Maura Sala, studiosa da oltre dieci anni di archeologia siro-palestinese, è direttore sul campo di una missione archeologica in Giordania, nonché di un’altra in Palestina. La sua esperienza di giovane donna per lunghi periodi in Medio Oriente e del suo lavoro a metà tra archeologia, storia e fede offre una testimonianza significativa di contatto tra Europa e Levante.

Perché ha scelto di specializzarti in archeologia biblica? E che emozione le dà «scavare» la Bibbia?
Mi ha sempre affascinato l’idea di conoscere una cultura oggi così apparentemente lontana dalla nostra, eppure dalle antiche radici comuni. In particolare, il Levante meridionale, la regione dove lavoro (la zona compresa tra Libano, Israele, Palestina e Giordania), mi aiuta a conoscere il contesto storico e culturale in cui affondano le radici la mia cultura e la mia fede. In più, scavare le terre bibliche emoziona sempre, perché restituisce dignità e realtà fisica a un passato che diversamente rimarrebbe sepolto e dimenticato. Le persone di cui parla la Bibbia avevano una casa, passeggiavano e si incontravano lungo strade attraverso le quali hanno fatto percorsi di fede prima di noi. È ormai chiaro che lo scopo dell’archeologia non deve essere quello di dimostrare se una cosa sia vera oppure no, soprattutto nei testi sacri, ma piuttosto di aiutarci a collocare queste persone e questi eventi nella storia fisica e concreta.

Qual è la scoperta più interessante che ha fatto finora?
Nella Giordania centro-settentrionale, da otto anni, sto scavando una città ben più antica dei racconti biblici, datata a circa il 2500 a.C., coperta dalla sabbia e completamente sconosciuta fino all’inizio dei nostri scavi. Khirbet al-Batrawy (nella foto), questo il suo nome, è un’emozione tuttora in corso. Nella missione condotta dall’Università La Sapienza di Roma con il Dipartimento delle antichità del Regno hashemita, abbiamo scavato il tempio, le mura della città e il palazzo, dove è stata portata alla luce anche una collana in rame e gemme, ora in Italia per restauri e analisi. La stessa emozione la dà lavorare a Tell es-Sultan, l’antica Gerico, in Palestina, missione ugualmente condotta dall’Università La Sapienza e dal Dipartimento delle Antichità della Palestina. La missione è iniziata nel 2008 e c’è ancora moltissimo da scavare.

Quale scoperta vorrebbe fare?
Il sogno dell’archeologo è di trovare un archivio di tavolette, scritti che illustrino meglio i manufatti e gli edifici che vengono alla luce. I monumenti che troviamo sono muti e i documenti scritti danno loro una voce. Noi interpretiamo, ma sicuramente molto ci sfugge.

Che cosa le insegna lavorare in Medio Oriente?
Ho sperimentato che nella diversità c’è la grandezza, se ci si dimostra rispettosi e aperti verso l’altro. Ho sempre avuto buoni rapporti con tutti, dagli operai con cui lavoriamo nello scavo ai funzionari dei dipartimenti, immagino perché comprendere e osservare le usanze locali, perfino nell’abbigliamento, li rende estremamente disponibili e cordiali. E la loro ospitalità si rivela davvero grande!

Elisa Costanzo

 

NON SOLO QUMRAN
Da quasi due secoli gli archeologi compiono ricerche nello spazio storico e culturale abbracciato dall’Antico e dal Nuovo Testamento. Nel 1943 Pio XII citò in un’enciclica l’archeologia come sostegno agli studi biblici. La più importante delle recenti scoperte è stata fatta nel 2012 a 30 km da Gerusalemme, tra le rovine di Qeiyafa, da un team israeliano che ha trovato reperti utili a conoscere la società del tempo di re Davide e l’architettura del Tempio.


 

© FCSF - Popoli, 1 novembre 2013