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Un graffito per la pace

Una chiesa cristiana semidiroccata nel centro di Beirut, che tale deve rimanere, per ricordare le atrocità della guerra. Un giovane graffitaro che usa i colori sui palazzi bombardati e abbandonati per guardare a suo modo al futuro con ottimismo e speranza. Sono queste le due immagini che ci lascia dentro al termine del colloquio Tiziana Cauli, 34 anni, giornalista di origine sarda, ora a Beirut. Un dottorato in Storia dell’Africa e anni di esperienze in prestigiose agenzie di stampa internazionali, dopo soggiorni a Parigi, Johannesburg, Londra e Barcellona, l’incontro con il Libano e il Medio Oriente. Una terra difficile, piegata dall’incubo di infiltrazioni terroristiche e affollata di profughi siriani in continuo movimento.

«Vivo a Batrakieh - racconta Tiziana - una zona semicentrale di Beirut, controllata da Hezbollah (movimento politico-religioso sciita, ndr). Sono arrivata qui per studiare l’arabo e mi sono trovata davanti un mosaico esplosivo di gente aperta, curiosa, ospitale, appassionata, che però si è combattuta fino a ieri e che vive tuttora tra un forte desiderio di pace e rancori mai completamente sopiti». Tiziana ha l’impressione che a Beirut la fede religiosa divida più che unire, e le divisioni sono sempre vive anche perché abilmente fomentate dall’esterno. «Qui la religione è politica - osserva -, non solo bisogno spirituale, e soprattutto appartenenza a un gruppo. Per questo le feste religiose, tutte, di ogni confessione religiosa, sono molto sentite. Domina il nazionalismo religioso, e nell’incontrare una persona si cerca subito il segno distintivo in base al quale definirlo, se cristiano, musulmano o altro».

La cosa che più l’ha colpita, arrivando dall’Europa, è stata la gente: «Non si scoraggiano mai, non esiste nulla che li faccia veramente disperare. Forse perché hanno perso tutto, e sono riusciti a ripartire comunque, anche senza dimenticare le vecchie ferite. Non a caso continuano a mantenere uno accanto all’altro palazzi pericolanti bombardati e nuovissime costruzioni. Ricordo a questo proposito di essere entrata in una chiesa cristiana molto danneggiata per fare delle foto vicino a downtown, il centro città pieno di boutique, costruito a uso e consumo esclusivo dei turisti. Il custode mi ha detto che avrebbe voluto restaurare l’edificio, ma che alla fine andava bene che restasse pure così, per ricordare ogni giorno alla gente che cosa produce la guerra e cosa può sempre succedere se ci si continua a odiare e uccidere: solo macerie».

Allo stesso tempo, in questo Paese grande come la Calabria, che ospita solo una minima parte dei libanesi, quasi tutti bilingue, molti espatriati in ogni angolo del mondo, le nuove generazioni provano a costruire un futuro diverso. Moltissime le associazioni attive nell’assistenza ai rifugiati siriani e ai palestinesi nei campi profughi disseminati da decenni in varie zone del Paese. «Ricordo l’incontro con Yazan Halwani - continua Tiziana -, graffitaro ventenne che usa i colori non per imbrattare i palazzi fatiscenti e bombardati, ma per creare unione e abbellire. Anche lui pensa che alla fine sarà costretto a emigrare, ma intanto non demorde e colora di pace la sua città. Con orgoglio mi ha mostrato una foto in cui è all’opera con due soldati, che hanno abbandonato il check point per aiutarlo a terminare un graffito. È un piccolo gesto, ma forse non c’è messaggio di speranza più forte di questo».

Elisa Costanzo


LA CHIESA MARONITA
I cristiani libanesi appartengono a diverse tradizioni ecclesiali. La Chiesa più «autoctona» in cui si riconoscono i cattolici libanesi, rimasta nei secoli legata a Roma, è quella maronita, dal nome dell’anacoreta Marone, attivo nella Turchia orientale nel VIIº secolo. Qui i maroniti eressero un patriarcato autonomo, quindi si trasferirono sulla catena montuosa del Libano per difendersi dall’espansione islamica. Nel 1584 fu fondato a Roma il loro primo collegio, tuttora esistente. Oggi i fedeli sono oltre 3 milioni, tra i residenti in Libano e quelli della diaspora. L’attuale patriarca, il cardinal Rai, risiede a Bkerké, presso Beirut. Pur parlando l’arabo, mantengono nella liturgia l’antica lingua siriaca (aramaica) e seguono il rito di Antiochia.

© FCSF - Popoli, 1 febbraio 2014