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Cambogia, caccia agli zirconi
18/11/2014
Nelle regioni del Nord-Est centinaia di uomini, donne e bambini per sopravvivere scavano ogni giorno nella terra  estraendo pietre preziose. Un lavoro rischioso che si intreccia con interessi internazionali per lo sfruttamento delle risorse minerarie. Il reportage e le foto di Gabriele Stoia.


Allontanandosi dalle verdi risaie
della pianura il paesaggio muta lentamente cedendo il posto alle foreste tropicali della provincia di Ratanakiri. A centinaia di chilometri dalle celebri rovine khmer di Angkor Wat, dalla capitale e dalle località balneari della costa è raro incontrare visitatori. I pochi turisti che si avventurano in questo territorio, vicino ai confini con il Laos e il Vietnam, sono attirati dalle bellezze naturalistiche. Sono incuriositi dalle famose miniere di zirconi blu, considerati i migliori al mondo e, forse, dalla speranza di fare qualche buon affare, ignari della realtà dei minatori locali impiegati come tali fin da bambini.

Nella miniera di Bokeo lavorano circa quattrocento persone. Conosciuti in lingua khmer come «kamakor tbong», sono cambogiani khmer, alcuni indigeni della minoranza tampuon, altri arrivano invece dal vicino Vietnam. Spesso sono stati allontanati dalle terre di origine, sono privi di istruzione e alternative di impiego. I minatori scavano fori nella terra larghi una sessantina di centimetri e profondi oltre dieci metri, facendo uso solo di sbarre di ferro e piccole pale di plastica.

«Non mi piace fare il minatore - racconta Ly Kimheng, 13 anni -, ma siamo poveri.
Ci sono anche molti bambini nelle miniere. Lavoriamo insieme, non abbiamo altra scelta». Ly Kimheng ha solo 13 anni e scava a Bokeo da quando ne aveva sette, affiancato dal fratello minore Ly Kineng e dal padre Ly Mon. «Era solo un ragazzino, non voleva scendere - racconta il padre -. Piangeva perché aveva paura di seguirmi nel buio, ma alla fine ci si abitua a questa vita».

Piccole nicchie laterali lungo il tunnel fungono da scalini per poter scendere sotto terra. Le prime gemme si trovano a circa sei metri di profondità. Il tempo impiegato per l’intero scavo è di circa due giorni e impegna due minatori che si alternano in turni di quattro ore. Il primo, scavando, riempie un contenitore che viene trasportato in superficie mediante un verricello da un secondo minatore che opera con una puleggia in legno. I secchi vengono rovesciati a terra per setacciarne a mano il contenuto meticolosamente. I pozzi distano circa cinque metri l’uno dall’altro e, per migliorare l’areazione, vengono collegati scavando cunicoli orizzontali, alti poche decine di centimetri, appena sufficienti perché un minatore possa strisciare al loro interno.

DIETRO IL BLU DELLE GEMME
Le pietre raccolte
possono essere vendute solo all’affittuario del terreno ma, in assenza totale di competenze gemmologiche, i kamakor tbong non sono in grado di distinguerne il pregio e ricevono solo una frazione del valore reale. I profitti sono proporzionati al numero di zirconi di qualità che riescono a trovare. «Il padrone vuole solo pietre buone, altrimenti non paga», conferma Ly Kimheng. Talvolta si scava per giorni senza successo. «Niente pietre, niente cibo», commenta un altro giovane, prima di scomparire nell’oscurità di un tunnel. Questo minatore non ha avuto un pasto completo da tre giorni.

«Noi tutti vogliamo trovare la grande pietra. Tutti vogliamo aiutare le nostre famiglie», esclama Ly Kimheng. Ma finora nessun kamakor tbong si è arricchito in questo modo: per i più fortunati il guadagno si aggira intorno ai 75-150 euro al mese.

La costante presenza dell’affittuario del terreno rende difficile per i minatori vendere i loro ritrovamenti al di fuori di questo mercato controllato, a eccezione di qualche affare occasionale con i pochi turisti di passaggio.
Non esiste una stima ufficiale della quantità di zirconi estratti nelle miniere di Ratanakiri. Queste gemme si trovano anche in altri Paesi, ma quelle provenienti dalla provincia cambogiana hanno una colorazione blu particolare. Parte delle pietre sono vendute ai broker di Banlung (il capoluogo locale), dove vengono sottoposte a uno specifico trattamento termico e successivamente tagliate e montate su elaborati gioielli. Il prodotto finito è destinato alle classi alte cambogiane e ai turisti, soprattutto cinesi e coreani, mentre l’esportazione interessa soprattutto il Vietnam. Il resto delle pietre grezze è venduto agli artigiani di Chanthaburi, una provincia della Thailandia nota per la lavorazione delle pietre preziose.

Nonostante le risorse minerarie, Ratanakiri è una delle aree meno sviluppate della Cambogia. In lingua khmer il nome della provincia significa «montagne delle gemme», per la facilità con cui si trovavano opali e ametiste, oltre che zirconi.

UNO SFRUTTAMENTO ANTICO
L’estrazione delle pietre
nel Paese risale alla seconda metà dell’Ottocento. Avveniva nell’Ovest, che all’epoca era parte del regno del Siam (Thailandia), e coinvolgeva molti minatori provenienti dalla Birmania. Lo sfruttamento delle miniere passò alla Siam Exploring Company, una società inglese che continuò la sua attività anche dopo il 1907, quando il territorio tornò ad appartenere alla Cambogia (allora controllata dai francesi). Lo sfruttamento intensivo impoverì le riserve causando la progressiva riduzione delle attività. Alcuni minatori di origine birmana si trasferirono allora a Ratanakiri e cominciarono a scavare in nuovi giacimenti.

Oggi l’attività mineraria in Cambogia non riguarda solo le gemme di Ratanakiri, ma si estende su tutto il territorio nazionale. Indagini effettuate negli ultimi anni da geologi francesi e cinesi hanno indicato significative presenze di minerali metallici e non metallici, combustibili minerali solidi e materiali da costruzione. Tali riserve hanno inevitabilmente attirato l’attenzione di compagnie, anche straniere, e, a partire dalle prime elezioni democratiche del 1993, il governo ha adottato una politica di apertura agli investimenti favorendo le concessioni.

Secondo la Costituzione, la proprietà dei terreni non può essere ceduta a investitori stranieri, ma questi possono stipulare contratti di affitto, anche rinnovabili, per la durata complessiva di 70 anni. Possono inoltre godere del totale controllo sull’investimento minerario, oltre ad avere la garanzia che l’attività non sarà nazionalizzata né i prezzi subiranno regolamentazioni. L’estrazione prevede una prima concessione di esplorazione della durata di sei anni, che consente di effettuare rilievi nel terreno, seguita, in caso di buon esito, dalla licenza mineraria di 30 anni.
Secondo le statistiche del 2013 pubblicate dal Dipartimento generale delle Risorse minerali, sono 91 le compagnie che hanno in corso 139 progetti di esplorazione, di cui 17 sono risultati positivi e 13 hanno già ricevuto la licenza per l’estrazione. Oltre agli investimenti domestici, grandi progetti da milioni di dollari sono «firmati» Australia, Cina, Corea del Sud, Giappone, Thailandia, Usa e Vietnam. Di fronte a tali interessi poco o nulla possono fare le popolazioni locali per difendere il proprio territorio, anche per la mancanza di titoli fondiari ufficiali. Il potenziale economico delle risorse supera di gran lunga il valore economico delle foreste, a scapito dell’interesse a preservare l’ambiente. Il numero crescente di concessioni ha aumentato le dispute sui terreni e limitato l’accesso delle popolazioni autoctone alle risorse naturali.

In accordo con la più recente legislazione sulla gestione delle proprietà (2001), agli indigeni viene riconosciuto il diritto all’utilizzo del terreno solamente a titolo collettivo, ma le leggi nascondono molte ambiguità e non sempre rispondono alle reali necessità delle popolazioni. Alcune province periferiche soffrono anche per l’inadeguatezza delle deboli amministrazioni locali. La gente di molti villaggi rimasta senza lavoro per l’alienazione delle terre e la deforestazione illegale è stata costretta a migrare.

Mentre l’espansione dell’industria mineraria procede rapidamente, gonfiando gli introiti delle multinazionali, per molte famiglie le miniere rappresentano una delle poche garanzie di sostentamento rimaste in alternativa all’impiego stagionale nelle risaie, meno redditizio. «È meglio dell’agricoltura - osserva Ly Kimheng -. Possiamo estrarre tutto l’anno, tranne quando piove forte». Sempre al lavoro nei cunicoli, molti ragazzi abbandonano lo studio con la prospettiva di scendere nelle miniere per il resto della loro vita.
Testo e foto: Gabriele Stoia



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