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Dopo Lampedusa, cambiare adesso
2 novembre 2013

Pubblichiamo l'editoriale del numero di novembre di Popoli. Puoi acquistare questo numero su carta o in versione digitale.

L’emozione passa, la vita continua. Se invece potessimo avere sempre negli occhi immagini e volti di quel maledetto 3 ottobre, quando un barcone di migranti è affondato in pochi minuti al largo di Lampedusa, portandosi giù almeno 366 degli oltre 500 passeggeri, sarebbe più difficile dimenticare.

Perché quei morti (e i quasi 20mila che li hanno preceduti negli ultimi 25 anni) non devono essere dimenticati. Allora verrebbe più spontaneo trasformare l’indignazione del momento in costante pressione sui nostri politici dalla lacrima facile quanto fuggevole. E si avrebbero forse meno remore nel chiamare con il loro nome certi «opinionisti» con l’accusa di buonismo sempre pronta all’uso: cinici e arroganti che costruiscono sui cadaveri il proprio successo politico o giornalistico.

È vero, questa volta non tutto è stato cancellato dall’oblio, o almeno non così in fretta come in passato. Ma siamo sempre dentro la logica della «risposta all’italiana» (possiamo definirla così, visto che nel genere probabilmente siamo primatisti mondiali): cuore in mano, generosità straordinaria, un bel pacchetto di misure di emergenza, e via. Certo, va salutata con favore la decisione del governo Letta di avviare una missione militare umanitaria per pattugliare costantemente il Mediterraneo, soccorrere imbarcazioni in difficoltà e fermare gli scafisti. È proprio grazie a questa misura, ad esempio, che il 15 ottobre è stata soccorsa in acque internazionali un’altra carretta del mare in difficoltà, evitando una nuova strage. Altre novità, in questo senso, si attendono da un rafforzamento dell’apparato di controllo Frontex e dall’avvio, in dicembre, del sistema di rilevamento Eurosur, peraltro un oggetto ancora misterioso.

Ma la risposta non può fermarsi qui. Per essere efficace e duratura, occorre che vada a toccare nervi che - in Italia e in Europa - sono scoperti da decenni. A livello nazionale, il nostro apparato legislativo sull’immigrazione dimostra tutta la sua inadeguatezza e miopia: la legge Bossi-Fini ha confermato tutti i limiti denunciati 11 anni fa, alla sua nascita (per dirla in modo un po’ spiccio: non serve a bloccare i delinquenti, e ce ne sono anche tra i migranti, mentre complica inutilmente la vita agli onesti); lo stesso dicasi dei vari pacchetti sicurezza varati dall’allora ministro Roberto Maroni, di cui fa parte l’odioso quanto inutile reato di clandestinità; mentre continua a mancare, da 58 anni, una legge organica sul diritto di asilo.

Anche a livello europeo urge un cambio di passo. Molti concordano sulle piorità, ciò che manca è forse il coraggio di sfidare qualche sondaggio sfavorevole. Occorre, per esempio, rafforzare la cooperazione con i Paesi di origine e transito dei migranti; interrompere il sostegno a regimi che, affamando e perseguitando i propri cittadini, li spingono a emigrare (il caso del dittatore eritreo Isaias Afeworki e della sua solida amicizia con l’Italia è forse quello più eclatante); cambiare l’assurda normativa che va sotto il nome di Dublino 2, la quale obbliga i richiedenti asilo a risiedere nel Paese Ue in cui fanno domanda (fomentando irregolarità e difficoltà di integrazione); suddividere in modo più equilibrato responsabilità e oneri dell’accoglienza.

Altrimenti l’emozione passa, la vita continua e i problemi restano. Anzi, si aggravano.

Stefano Femminis
Direttore di Popoli

© FCSF – Popoli