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Francesco a Lampedusa: la forma e la sostanza
25 luglio 2013

La visita alla «porta d’Europa» resterà nella storia per molti motivi: la potenza dei simboli, la scossa alla politica e un messaggio che va anche oltre i temi dell’immigrazione. Anticipiamo l'editoriale del numero di agosto-settembre di Popoli, in distribuzione in questi giorni agli abbonati e nelle librerie.

 

La forma è sostanza. Sin dai primi momenti successivi alla sua elezione, Papa Francesco ci ha mostrato la forza di questo binomio. A Lampedusa, lo scorso 8 luglio, se ne è avuto un altro straordinario esempio.

La forma, i simboli, i gesti del Papa sono già parte integrante del messaggio. Pensiamo all’individuazione di una meta così significativa per il primo viaggio del pontificato fuori Roma, alle modalità organizzative (una visita fulminea e sobria, pochissime autorità civili ed ecclesiastiche), alla cura nella scelta degli «accessori» liturgici (una piccola barca come altare, il calice fatto con lo stesso legno, il colore viola-penitenziale dei paramenti).

In un’epoca in cui tutto è comunicazione, nella quale lo stile con cui si fa o si dice una cosa determina in partenza la credibilità del soggetto, il pontefice dalle scarpe consumate, che rinuncia a vivere nell’appartamento papale e chiede la rimozione di una sua statua a Buenos Aires, parla a tutti e di tutti attira l’attenzione: perché non dice cosa fare, fa quello che dice.

Ma qual è, appunto, la sostanza del messaggio veicolato da Francesco, pellegrino alla «porta di Europa»? Tra i tanti significati, ne rilanciamo due.

Non esiste un modo autentico di «servire» il Vangelo che possa essere disconnesso dalla promozione della giustizia (e qui probabilmente il Papa gesuita ha presente i documenti che in questi decenni hanno guidato l’apostolato della Compagnia di Gesù). Francesco è andato a Lampedusa per pregare - come ha ribadito lui stesso - ma, con la sua preghiera e con il suo silenzio contemplativo davanti ai migranti che gli raccontavano la loro storia, ha fatto politica, nel senso più nobile del termine. Senza polemiche, ma in modo inequivocabile, ha messo al centro del dibattito pubblico un problema troppo facilmente rimosso: chi fugge da guerre e carestie non può essere sbrigativamente etichettato come clandestino e tenuto con ogni mezzo a distanza dalla fortezza Europa. A meno che quella fortezza, spazio di democrazia e di rispetto dei diritti umani, non voglia sprofondare in una palude di ipocrisia.

Ma c’è un significato che va oltre il tema, già rilevante, delle migrazioni. Si intravede quello che potrebbe forse diventare il cuore stesso del pontificato di Bergoglio. Dopo le denunce dei predecessori, il pontefice che viene «dalla fine del mondo» ci svela definitivamente il volto che rischia di assumere la società post-moderna: la «globalizzazione dell’indifferenza», infatti, non colpisce solo i migranti ma può inquinare il nostro modo quotidiano di vivere le relazioni; possiamo smarrire la capacità di versare lacrime persino per chi è vicino, la perdita del senso della responsabilità fraterna («Chi è il responsabile di questo sangue? Tutti e nessuno!») può diventare una malattia contagiosa.

Come ha scritto il sociologo Mauro Magatti (Corriere della Sera, 9 luglio), «il tema di fondo è quello della libertà: correre dietro alle tante ipotetiche possibilità ha finito per creare un individualismo ottuso così centrato sull’io da far perdere il senso dell’altro. (...) L’antidoto, dice Francesco, è quello di non distogliere lo sguardo dalla fragilità della vita, che sola ci può liberare dalla nostra autoreferenzialità. Non meno libertà, ma una libertà che diventa consapevole di se stessa». 

Stefano Femminis
@stefanofemminis

© FCSF – Popoli