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"Francesco e il Dio delle sorprese": intervista a Federico Lombardi
3 dicembre 2014

Padre Federico Lombardi, 72 anni, gesuita, è dal 2006 fra i più stretti collaboratori del pontefice (leggi qui un profilo): prima Benedetto XVI, ora Francesco. Non si sa se per il carattere riservato o per la delicatezza del suo ruolo, non ama rilasciare interviste. Anche per questo gli siamo particolarmente grati per l’ampio tempo che ci ha messo a disposizione in un suo passaggio dalla redazione milanese di Popoli.

Padre Lombardi, cominciamo dalla sera del 13 marzo 2013: quali sono stati i suoi primi pensieri quando ha saputo il nome del nuovo Papa, scoprendo che si trattava dell’unico gesuita del Conclave?

Confesso che la cosa mi ha lasciato stupefatto perché non ero preparato a un’eventualità di questo genere, non avrei mai immaginato che un gesuita potesse essere eletto Papa. Sapevo che il cardinale Bergoglio era una persona stimata e autorevole, si diceva anche che nel precedente Conclave avesse ricevuto molti voti. Sapevo che aveva fatto interventi significativi nel corso delle Congregazioni preparatorie, ma non per questo mi immaginavo potesse diventare Papa.

Un gesuita diventava il nuovo punto di riferimento per la Chiesa. Va sempre tenuto presente che i gesuiti hanno un rapporto speciale con il Pontefice. Per loro, nella prospettiva di sant’Ignazio di Loyola, il Papa è il vero superiore della Compagnia di Gesù. Che il Papa sia anche gesuita, rafforza ulteriormente questo rapporto. 

Altre due cose, poi, mi hanno colpito profondamente: il nome Francesco e la provenienza dall’America Latina. Il nome Francesco, scelto per la prima volta nella storia dei pontefici, rappresentava un segno di grande coraggio e a mio avviso lanciava un messaggio: dimostrava subito la forte personalità di Bergoglio, che non si sentiva condizionato da ciò che era avvenuto prima di lui e che, scegliendo quel nome, si è appellato a una delle figure più espressive della tradizione cristiana. La provenienza latinoamericana, poi, dimostrava che la Chiesa decideva di adottare un punto di vista differente su se stessa e sul mondo.

Ma Lei conosceva già Jorge Mario Bergoglio?

Ricordo di averlo conosciuto durante la 33ª Congregazione generale dei gesuiti, nel 1983: l’allora padre Bergoglio fece alcuni interventi significativi, ma non ebbi l’occasione di un incontro personale in quell’occasione. Tanto meno successivamente, quando fu ordinato vescovo e uscì dalla vita ordinaria della Compagnia di Gesù. Un incontro personale l’ho avuto solo durante le Congregazioni di preparazione del Conclave del 2013.

E dopo l’elezione, quando lo ha incontrato per la prima volta?

Il mattino dopo ci incontrammo in Santa Maria Maggiore dove il Papa si era recato a pregare in forma privata. Francesco era accompagnato da un piccolo gruppo di persone del quale facevo parte anch’io: in quanto direttore della Sala stampa dovevo seguire il più possibile da vicino gli eventi successivi al Conclave. Lui mi vide e mi salutò con molta gentilezza e molta cordialità. Fu un breve colloquio, ma significativo.

Nel suo lavoro ordinario incontra spesso il Papa?

Molti pensano che il portavoce sia in stretta familiarità con il Papa, ma non è così. Non era così con Benedetto XVI e non è così con Francesco. Qualcuno pensa che questo non frequentare in modo assiduo il Pontefice rappresenti un segno di scarsa efficacia del mio servizio oppure che il mio servizio sia svolto in modo marginale. In realtà ho molto rispetto dell’insieme della struttura che lavora con il Pontefice. In linea di principio la Sala stampa, della quale sono direttore, fa capo alla Segreteria di Stato. Penso che i primi consiglieri del Papa siano il Segretario di Stato, il Sostituto e il Segretario per i rapporti con gli altri Stati. Poi ci sono i capi dei singoli dicasteri per le questioni più specifiche. Se ho cose da chiedere mando una mail al segretario personale del Papa, lui poi inoltra al Pontefice la mia missiva e la risposta mi arriva in tempi brevi. Io non telefono mai personalmente al Papa, né chiedo colloqui. 

Poi è chiaro che ogni Papa utilizza i suoi collaboratori come meglio crede. Papa Wojtyla spesso diceva a Navarro-Valls ciò che faceva senza passare attraverso la struttura burocratica, chiamiamola così. Benedetto XVI invece preferiva seguire la via istituzionale. Con Francesco il rapporto è ancora diverso: lui esce da tutti gli schemi e si muove in totale libertà. Un po’ perché viene da una impostazione molto pastorale che cerca di mantenere anche da Pontefice, un po’ perché intende manifestare che non è troppo ancorato a vincoli strutturali. 

Così succede che alcune iniziative del Papa non passino attraverso canali istituzionali ma siano prese da lui in totale libertà. Io ne vengo a conoscenza perché vengo interpellato direttamente da lui o dai suoi segretari, senza che i canali classici ne vengano investiti. 

Le specificità di ogni Pontefice si vedono anche, ad esempio, nel modo in cui vengono gestite le udienze con i capi di Stato, quando io devo preparare il comunicato per la stampa: Benedetto XVI si concentrava molto sui contenuti del colloquio, con un gusto unico per il dettaglio e la sintesi, mentre Francesco si sofferma molto sul lato umano e spirituale degli incontri. 

In questo atteggiamento del Pontefice quanto conta il suo carattere e quanto, invece, siamo di fronte a una scelta «politica» di rapportarsi in un certo modo alle istituzioni?

Non direi che c’è una volontà di destrutturare le istituzioni. Papa Francesco dice spesso che lui sta operando secondo le indicazioni che gli hanno dato i cardinali durante la preparazione del Conclave: da una Chiesa percepita come centralistica, in cui c’era un certo peso della Curia in molti campi (disciplinare, dottrinale, ecc.), a una Chiesa in cui le diverse parti vengono più ascoltate e hanno un maggiore ruolo nel determinare le linee sulle quali il pontificato si muove. In questo contesto, è particolarmente importante la creazione del «Consiglio di cardinali» (cosiddetto degli 8), che dà uno spazio maggiore alla Chiesa universale nel governo della Chiesa.

Alcuni vedono in questo metodo di governo una trasposizione a livello di Chiesa universale del metodo di governo della Compagnia di Gesù. È d’accordo con questa interpretazione?

Il metodo utilizzato dal Padre Generale dei gesuiti di ascoltare i suoi consiglieri e poi di assumere le decisioni in modo autonomo è certamente simile. Ma non credo che questo metodo sia esclusivo della Compagnia. Trovo invece interessante e importante lo sforzo di utilizzare il Sinodo facendolo diventare il luogo di riflessione e guida pastorale della Chiesa, proponendo anche temi molto importanti in un modo partecipato. Il Sinodo non è certamente stato inventato da papa Francesco, ma lui ha cercato di restituirgli un ruolo più importante.

Sottolineo però che quello di Francesco non è un disegno organico alternativo, è piuttosto un mettere in moto una realtà complessa come la Chiesa. È una Chiesa in cammino. Lui non impone la sua visione e il suo modo di agire. Chiede e ascolta i diversi pareri. Non sa dove si andrà: si affida allo Spirito Santo. In questa visione del governo della Chiesa, ritengo molto importante la dimensione del camminare nella fede e nella fiducia dell’assistenza dello Spirito Santo. Questo aspetto è importante perché altrimenti diventa un camminare nel buio e ci si sente persi.

In che cosa vede emergere più chiaramente l’identità di gesuita di Bergoglio?

Penso che si riconosca soprattutto nella spiritualità che pervade il suo modo di esprimersi e il suo magistero. Ritrovo questa spiritualità soprattutto nelle omelie che pronuncia a Santa Marta. Si mette in rapporto con la Parola di Dio con un atteggiamento di ascolto per capire che cosa gli sta dicendo personalmente il Signore, come lo interroga e come può influire sul suo modo di vivere e di pensare. È un tipo di ascolto molto immedesimato, che lo interpella personalmente ed è in rapporto concreto con la vita quotidiana. Questo lo trovo assolutamente in sintonia con gli insegnamenti degli Esercizi Spirituali. Così come è in sintonia con gli Esercizi il suo continuo richiamo ai fedeli ad avere un rapporto personale con Gesù e a vedere Dio in ogni cosa. 

Un altro aspetto molto caratteristico della sua formazione di gesuita è il suo parlare della missione, della Chiesa che va verso le frontiere e che guarda dove portare il Vangelo piuttosto che guardare a se stessa. Se vogliamo, poi, sono tipicamente «gesuitici» anche una certa semplicità dello stile di vita, il rifiuto di ogni forma di trionfalismo. Prima ancora, naturalmente, sono aspetti in sintonia con lo stesso messaggio evangelico, ma è vero che nella tradizione della Compagnia sono molto presenti e quindi non mi stupisce affatto ritrovarli nel comportamento di papa Francesco.

C’è qualche tappa della storia della Compagnia o qualche gesuita del passato al quale il Papa è più legato?

Fin dall’inizio del pontificato il Papa ha avuto in mente di mettere in rilievo la figura di Pietro Favre. E fin dall’inizio ha compiuto i passi per la sua canonizzazione, che poi è avvenuta il 17 dicembre 2013. Compagno di Ignazio di Loyola, Favre è una figura non così nota nemmeno per gli stessi gesuiti. Il fatto che Francesco lo abbia elevato agli onori degli altari proponendolo come modello alla Chiesa universale ci ha colpito ed è stato espressivo di un suo modo di vivere l’esperienza della Compagnia. Favre ha infatti saputo conciliare in modo esemplare e profondo la sua azione apostolica e la contemplazione. È stato veramente un «contemplativo nell’azione», secondo il carisma dei gesuiti. 

Non va dimenticato, poi, che il Papa ha canonizzato anche il gesuita José de Anchieta, una delle grandi figure della Compagnia di Gesù missionaria.

A proposito di gesuiti missionari, ci può dare qualche novità sulla beatificazione di Matteo Ricci, di cui si parla da tempo?

So che il postulatore, Anton Witwer, ha ripreso a lavorare in questo senso, mentre prima mi sembrava di notare un certo stallo. Personalmente credo sarebbe molto bello abbinare a Matteo Ricci anche Xu Guangqi (compagno e collaboratore cinese di Ricci, convertito al cristianesimo, ndr). Mi pare che il postulatore stia andando in questa direzione. Credo che avrebbe un significato profondo rispetto ai rapporti con la Cina, sarebbe un grande messaggio di inculturazione.

Inculturazione, dialogo con le culture, dialogo con altre religioni e con i non credenti: sono altre «parole chiave» dei gesuiti che il Papa sembra sentire molto sue...

Sì, dei gesuiti c’è un certo modo di fare: semplice, diretto, non troppo vincolato a preoccupazioni istituzionali. Mi ha colpito il fatto che già due volte Francesco abbia ripreso la battuta che viene attribuita ad Atenagora e Paolo VI: «I teologi li mandiamo tutti a discutere su un’isola e noi facciamo l’ecumenismo!». Francesco porta avanti un dialogo dell’incontro, un incontro tra persone. E poi rilancia questo tema: come interpretare il suo servizio come vescovo di Roma in modo che possa essere capito e accettato anche dagli altri? 

Un altro aspetto in cui riscontro molto la «gesuiticità» del Papa è quello che definirei del Dio delle sorprese: Dio è sempre più grande di quello che noi abbiamo previsto e calcolato, ci sorprende sempre, ci apre nuovi orizzonti, ci mette davanti a situazioni nuove, ci fa sentire in cammino. Da qui l’idea della Chiesa in cammino, della sinodalità, non avere progetti già scritti, ma cercare di seguire l’ispirazione e la volontà di Dio cercandola ogni giorno. Qui c’è l’idea di Ignazio pellegrino. La Compagnia di Gesù si sente sempre in cammino e in ascolto della Parola di Dio. 

Un altro Papa, Paolo VI, definì i gesuiti «uomini di frontiera»: vede un parallelismo con l’insistenza di Bergoglio sul tema delle periferie? 

Certamente, quello che ha in mente Francesco quando parla delle periferie è un modo diverso di dire che la Chiesa è in missione, non è centrata su se stessa. C’è un aspetto in più, un po’ latinoamericano, e i gesuiti lo hanno vissuto molto ai tempi di Arrupe: qual è il punto di osservazione da cui leggere e interpretare la realtà nel rapporto fede-giustizia? Il punto è la solidarietà con i poveri. Se tu sei potente, al centro dell’economia e del sistema, non capirai mai che cosa non funziona nel mondo. Se sei solidale e vicino a chi soffre, a chi porta su di sé le conseguenze negative del male del mondo, capisci meglio che cosa cambiare. Conta il punto da cui si vede il mondo. E forse il concetto di «periferia» esprime meglio questa dimensione rispetto a quello di «frontiera». 

Andare alle periferie serve a questo e il Papa lo ha confermato con la scelta dei viaggi: da Lampedusa all’Albania. È interessante che l’Albania sia stata scelta come primo Paese europeo in cui compiere una visita. Il Papa non è partito da Berlino, ma da Tirana. 

Un tema che certo non riguarda solo i gesuiti ma tutti gli ordini religiosi è il calo di vocazioni, soprattutto in Occidente. Ha senso pensare che l’elezione di un Papa gesuita possa «rilanciare» gli ingressi nella Compagnia di Gesù?

Non credo sia automatico. Il Papa svolge un servizio per la Chiesa universale e non per la Compagnia di Gesù. La diminuzione numerica è un fatto, almeno in Occidente, ma credo sia difficile darne una spiegazione. Certamente è un problema che riguarda la vita religiosa nell’insieme, tutte le congregazioni sono toccate. Ciò ha a che fare con il tipo di forma concreta di vita in cui si incarna la testimonianza cristiana. In certi secoli la vita religiosa in senso classico era il terminale naturale di un certo tipo di intensità della vita cristiana, invece adesso si può esprimere in forme diverse. Certo, ci troviamo di fronte a un clima di secolarizzazione, di assenza del senso di Dio, del rapporto personale con Dio. Diminuisce il numero dei gesuiti anche perché diminuisce il numero dei cristiani e dei credenti. Il Papa ha parlato di un’Europa «stanca», dell’Europa che non fa figli. Credo che sia questo il pensiero del Papa: ridare vita e slancio alla Chiesa in Europa al servizio di un popolo che si manifesta stanco e poco desideroso di guardare con entusiasmo al futuro. 

Oltre ad alcune cose che ci ha già raccontato, quali somiglianze e differenze individua tra Francesco e Benedetto XVI? 

Cominciando dalle somiglianze, di Benedetto XVI la cosa che mi ha sempre colpito è il suo rapporto personale con Gesù, manifestato nei libri che ha scritto. Mi sembra una bellissima testimonianza: un Papa che dimostra che al centro della sua vita c’è Gesù Cristo, lo studia e cerca con Lui un rapporto personale. Questo aspetto lo ritroviamo in Francesco, anche se in modo diverso, nelle omelie di Santa Marta, nel modo in cui si esprime, insegna a pregare, chiede di pregare. Dunque qui vedo una continuità assoluta tra i pontificati, anche se espressa in modi differenti. 

Lo stesso direi per l’attenzione a un modo di governare la Chiesa che tenga conto della comunità nel suo insieme. Francesco cerca di rinnovare il metodo di lavoro del Sinodo, ma anche Benedetto ci aveva provato, forse con più timidezza. Aveva cercato di far inserire interventi personali, oltre a quelli previsti negli schemi, anche lui aveva dato attenzione ai concistori, come occasioni in cui i cardinali si incontrano e possono parlare. Quindi un’attenzione alla collegialità al servizio della Chiesa: c’è in Francesco, ma c’era anche in Benedetto. 

Le differenze sono quelle della personalità. Dipendono anche dalla storia e dal carattere delle persone. Benedetto è un grande teologo, una persona di cultura e tendenzialmente un intellettuale, anche come interessi e stile di vita. È stato arcivescovo di Monaco per un breve tempo, mentre Francesco è stato arcivescovo di Buenos Aires per molti anni, con una partecipazione pastorale più intensa. Uno Papa teologo, l’altro Papa pastore. Lo si nota molto nel loro modo di esprimersi, nella strutturazione dei discorsi e dell’insegnamento. Benedetto è un Papa che va ascoltato, letto e riletto per capirlo in profondità. Francesco non è affatto un superficiale, ma ha una grande capacità di immediatezza. Sa colpire con espressioni efficaci, cosa che per Benedetto era più difficile. 

Questo tra l’altro ha un’influenza diretta sul mio lavoro, perché Papa Francesco ha letteralmente «invaso» i mezzi di comunicazione, a partire dai social media. Certamente Francesco è il Papa ideale per il mondo della comunicazione. Detto questo, tutti noi che lavoriamo nei media vaticani sappiamo bene che non si può pensare che l’evangelizzazione del mondo e la comunicazione del Vaticano si fanno solo con questi strumenti. Li usiamo largamente, ma non pensiamo che sia l’unico modo. 

Dal punto di vista del modo in cui il Papa è percepito e raccontato dai media, dopo il periodo difficile di Vatileaks che cosa è cambiato?

C’è stato un grande impatto di Francesco, questa sua straordinaria attrazione ha avuto un effetto positivo, ovvero aiutare tantissima gente a capire che centro del servizio della Chiesa è il messaggio cristiano sull’amore di Dio, la misericordia, il perdono, la salvezza per tutti. In precedenza, chi ha una visione riduttiva o negativa della Chiesa e del cristianesimo imperversava, facendo sempre sembrare che l’unica cosa di cui il Papa si occupava era dire no agli omosessuali, no all’aborto, come se non esistesse nient’altro. Naturalmente non era vero, era una distorsione, ma di fatto il messaggio cristiano veniva ridotto così. Francesco è riuscito incredibilmente a ribaltare questa situazione e la Chiesa è diventata un punto di riferimento positivo per tantissime persone.

Anche il suo rapporto con la stampa forse ne ha beneficiato: l’abbiamo vista più rilassata negli ultimi mesi...

Questo dipende dal cambiamento del clima. Papa Francesco ha iniziato a dettare lui l’agenda della comunicazione. Sono gli altri che lo devono seguire e hanno materiale bello, che sono contenti di comunicare. Mentre nelle situazioni di stasi o di difficoltà o di pregiudizio negativo i giornalisti si concentravano più sugli scandali. La cosa bella per quanto riguarda il rapporto con la stampa è che quando tu hai queste fasi positive, è possibile riscoprire anche la vocazione professionale del comunicatore. Perché il comunicatore che può dire delle cose belle, di solito è contento, non ha bisogno di dire una cosa brutta, di inventarsi qualcosa, di scatenare una polemica. 

Lei non parla come uno che potrebbe tirare i remi in barca in tempi brevi, come qualcuno vocifera... 

Non saprei... Come età sono già abbastanza avanti, ho 72 anni, quindi non posso pensare di continuare molto a lungo, anche perché la mia è un’attività impegnativa. Detto questo, sono sempre stato a disposizione dei superiori. Tutte le cose che ho fatto le ho fatte fin tanto che mi sono state chieste. 

Devo anche dire che non credo sia così semplice, onestamente, trovare un’alternativa pronta. Non perché io valuti me stesso come particolarmente capace, ma perché c’è un certo accumulo di esperienze e di rapporti con i vari attori sulla scena... Insomma, io mi sento ancora in cammino, a servizio del Papa e del Vangelo. 

Ecco, in conclusione vorremmo chiederle proprio questo: dal suo punto di vista di sacerdote, di gesuita, di persona che lavora nella comunicazione, qual è il significato di essere al servizio del Papa?

Io ho sempre considerato quella della comunicazione una missione ricevuta e non cercata, già ai tempi della Civiltà Cattolica. Non è che io ho fatto il giornalista per mia vocazione personale. Ho lavorato molto per imparare a vivere il servizio nella comunicazione in continuità con il servizio dell’annuncio del Vangelo, cioè della missione della Chiesa come comunicazione della Parola di Dio. La Chiesa può essere vista come comunicazione per natura, gli apostoli sono persone che annunciano il Vangelo, i missionari non sono giornalisti ma certamente sono comunicatori. Il fatto di approfondire e di sentire sempre più spontaneamente la continuità tra la missione dell’annuncio del Vangelo e la comunicazione nel senso più professionale, questo è stato un po’ uno dei filoni della mia vita. 

E poi, certamente, c’è l’aspetto più specifico del lavoro in Vaticano: questo è l’aspetto del servizio alla comunione della comunità ecclesiale e dell’umanità. Cosa fa il Papa? Il Papa è servitore dell’unità della Chiesa e della comunità cristiana. Allora io come comunicatore vicino al Papa, sono a mia volta un servitore - con la comunicazione - dell’unità della Chiesa. L’idea della comunicazione per la comunione, per il dialogo, per l’unità è assolutamente radicale. Mi considero un avversario giurato della comunicazione per dividere, per mettere uno contro l’altro, per la polemica. La comunicazione serve per la comunione, o - come ama dire Francesco - per l’incontro. 

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