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Quando la famiglia va in missione
15/10/2013

A partire come missionari nelle Chiese del Sud del mondo non sono solo sacerdoti e suore, ma anche famiglie, perlopiù inviate dalle diocesi di appartenenza. In vista della Giornata missionaria mondiale (20 ottobre), ne abbiamo incontrate alcune per capire che cosa c’è all’origine della loro scelta e che cosa succede quando è ora di tornare.


Né eroi, né santi. Navigatori questo sì, chiamati come sono a esplorare mondi a loro sconosciuti, anche se non con le incognite e i rischi di qualche secolo fa. Sono i coniugi che, seguendo gli itinerari più svariati, decidono di seguire alla lettera l’appello evangelico: «Andate in tutto il mondo e annunciate il Vangelo».

Le famiglie missionarie - solitamente nei primi anni di matrimonio e quasi sempre appoggiandosi alla diocesi italiana di appartenenza - preferiscono il basso profilo, ricordano quanto peraltro ripetono tutti i pontefici e i documenti della Chiesa, dal Concilio in avanti, ovvero che la missione non è un compito solo per preti o suore e che ogni battezzato può e deve essere missionario, non importa se non sposta mai il proprio domicilio. Eppure la loro scelta incuriosisce e interroga: se non altro perché in tempi di crisi economica galoppante non è una scelta da poco quella di lasciare un lavoro sicuro. Così come non deve essere una passeggiata adattarsi a una cultura spesso totalmente «altra» e chiedere ai propri figli di fare lo stesso. E altrettanto coraggio, probabilmente, è richiesto nel momento del ritorno, normalmente dopo 3-4 anni, quando occhi e cuore si stavano affezionando a nuovi orizzonti.

Allora abbiamo provato a conoscere meglio alcune di queste famiglie, concentrando l’attenzione su «categorie» che vivono momenti particolarmente delicati: chi sta per partire o è partito da poco, e chi da poco è rientrato in Italia.

METTERE SU CASA IN PAPUA
La prima storia è quella di Diana e Tommaso, che al momento del colloquio con Popoli, a fine agosto, erano alle prese con i preparativi del matrimonio «Ci sposeremo il 13 settembre - spiega Tommaso - e ci concederemo una breve luna di miele più qualche mese di vita insieme a Milano. Poi partiremo per la Papua Nuova Guinea, sull’isola di Goodenough. Nella missione di Watuluma esistono una scuola che accoglie ragazzi dalle elementari alle superiori, un ospedale e una chiesa. Ci occuperemo della manutenzione e dell’amministrazione della scuola: Diana dal punto di vista educativo-psicologico, io da quello tecnico-strutturale».

Diana e Tommaso (leggi l'intervista completa) sono volontari dell’Associazione laici Pime (Alp), che ogni anno invia in missione - per un’esperienza di qualche anno - alcuni laici: nel 2013 hanno ricevuto il «mandato» sette persone, compresi i due neosposi. «La nostra scelta è maturata progressivamente - spiega Tommaso -: io ero stato in Bangladesh con il Pime, Diana in Brasile con la sua parrocchia, e poi pellegrinaggi parrocchiali, Gmg, tanti incontri con testimoni significativi». Già, viene da ribattere, ma un conto sono le esperienze estive, da single o fidanzati, un conto «metter su casa» in Papua; non c’è un po’ di timore? «Quando abbiamo deciso di sposarci abbiamo anche sentito il desiderio di fondare la nostra famiglia su un’esperienza capace di guidarci per tutta la vita. Una vita di sobrietà e di condivisione, per conoscere Dio sempre più a fondo. Certo, qualche paura c’è, ad esempio che le nostre reazioni emotive di fronte alle novità ci impediscano di vivere a pieno questa occasione».

Desideri, paure e progetti che si ritrovano - seppure forgiati dai primi mesi di esperienza - nelle parole di altre due coppie che abbiamo interpellato, in Perù e in Mozambico.

Nel primo caso, in realtà, siamo di fronte a missionari «di lungo corso»: Emanuele e Silvia Crestani sono stati in Guinea Bissau dal 2006 al 2009. Dopo qualche anno in Italia, lo scorso 28 giugno la partenza per Barranca, 200 chilometri a nord di Lima, dove insieme alle 4 figlie hanno raggiunto don Alberto Bruzzolo, sacerdote fidei donum della diocesi di Milano. «Per ora - raccontano - stiamo dando continuità a progetti già in corso, che prevedono l’accompagnamento di ragazzi della parrocchia con attività educative e di doposcuola. Sosteniamo poi attività di promozione femminile attraverso un laboratorio di taglio e cucito».

Inevitabile chiedere che cosa li ha convinti a partire una seconda volta: «Ciò che ci aveva spinti allora era stato il desiderio di condividere la nostra vita di famiglia cristiana in queste terre, inviati dalla nostra Chiesa di origine a un’altra Chiesa. Volevamo incontrare una realtà che per alcuni tratti ci appariva ingiusta, quasi senza futuro, ma nello stesso tempo tanto attraente, per la sua semplicità ed essenzialità. C’era come un senso di corresponsabilità nei confronti di queste persone e un’insoddisfazione per il modello di vita proposto dall’Occidente. Dopo il rientro in Italia il desiderio della missione è sempre rimasto vivo in noi e con l’arrivo di due gemelline, Martina e Camilla, si è rafforzato il desiderio di poter offrire a tutta la nostra famiglia alcuni anni di crescita in una nuova esperienza».

Ma la presenza, le attenzioni di cui i figli hanno bisogno, non rischiano di limitare l’esperienza? «In realtà - proseguono i Crestani (leggi l'intervista completa) - avere dei figli per noi rappresenta un’occasione importante per poter avvicinare realtà dove magari per i consacrati sarebbe più difficile entrare».

ESSERE FAMIGLIA,
UN LASCIAPASSARE
Concetto condiviso da tutte le coppie interpellate, ad esempio Giulia e Fabio Cento, in Mozambico dall’agosto 2012: «Come famiglia - spiegano - ci è più facile entrare nella vita della gente, condividere con loro le preoccupazioni e le gioie dell’essere famiglia. I tempi delle famiglie sono inevitabilmente diversi da quelli dei consacrati. Ma è proprio in questa diversità che la condivisione riesce meglio. È da qui che nasce l’idea di una équipe missionaria, nel nostro caso composta da un’altra famiglia italiana, Luca e Giulia Cresti e i loro tre figli, e da un sacerdote spagnolo, padre Pepe».

All’équipe è stata affidata la cura pastorale della parrocchia a Taninga, una comunità rurale al confine tra la provincia di Maputo e quella di Gaza, compito per cui Giulia e Fabio si sono preparati grazie alle esperienze con Mgm (Movimento giovanile missionario, attualmente Missio giovani) e con il sostegno fondamentale del Centro fraternità missionarie (Cfm) di Piombino.

«Padre Carlo Uccelli, saveriano, ed Emma Gremmo, laica per tanti anni missionaria in Congo sono per noi come due genitori spirituali: nel 1985 hanno dato vita a questa realtà che aiuta nella formazione e nel sostegno spirituale ed economico di persone intenzionate a partire per la missione. Anche se poi l’invio viene fatto dalla propria diocesi. Una cosa su cui il Cfm insiste molto è il mantenere uno stretto contatto con la gente del posto. Cerchiamo di vivere in sobrietà, anche se, nonostante gli sforzi, siamo consapevoli che resteremo sempre dei privilegiati. In quest’ottica, poi, ci pesa un po’ essere considerati dalle persone di qui come “portatori di verità”. C’è un rispetto nei nostri confronti molto forte che li porta a credere e accettare anche quello che non vorrebbero, quindi è difficile per noi capire cosa pensano realmente, solo il tempo li aiuterà a capire che anche i missionari sono semplici cristiani che hanno deciso di condividere una parte della loro vita».

Per Fabio e Giulia (leggi l'intervista completa), così come per le altre coppie intervistate, il contatto con la realtà rimane vivo anche a distanza: «Don Gianni Cesena, già direttore della Fondazione Missio, amava ripetere spesso che “la missione è andata e ritorno”. Crediamo che la Chiesa mozambicana abbia molto da “raccontare” a quella italiana e proprio in virtù di questo scambio e del fatto che il ritorno non è solo quello fisico e materiale, il legame con la nostra comunità italiana è forte».

UNA RICCHEZZA IN VALIGIA
Il ritorno, appunto. Un momento delicato, tanto più per chi è stato lontano dall’Italia per parecchi anni. È il caso di Chiara e Giovanni Balestreri: «Come fidei donum inviati dalla diocesi di Milano siamo stati cinque anni in Perù, nella diocesi di Huacho. In precedenza eravamo stati in Sri Lanka con l’associazione Papa Giovanni XXIII. Da fidanzati invece tre mesi in Bolivia. Praticamente sono quasi nove anni che stiamo vivendo una condizione di “pellegrini”. Siamo rientrati in Italia nel gennaio 2013 con la famiglia, che nel frattempo ha visto la nascita di tre bambine. L’Ufficio missionario ha accolto il nostro desiderio di metterci ancora a servizio della diocesi. Nel concreto si è realizzato un nostro inserimento in una parrocchia che rimaneva senza parroco residente: un progetto pilota ancora da definire, ma molto interessante. Quindi il nostro rientro è un po’ anomalo sia per quanto riguarda il lavoro sia per quanto riguarda la vita quotidiana. L’aver accettato poi la proposta di abitare in una casa parrocchiale ci aiuta a continuare a vivere con una certa precarietà evangelica che favorisce questa nostra ricerca».

A Chiara e Giovanni (leggi l'intervista completa) chiediamo quale Chiesa hanno trovato al loro rientro in patria, e sembrano avere già le idee chiare: «Forse si ragiona ancora troppo per gruppi e per interessi quando invece il Vangelo comprende tutto. Ad esempio si parla di chiese “etniche” e nelle parrocchie sono ancora pochi i catechisti stranieri, persone che invece potrebbero portare delle ricchezze. Abbiamo però riscontrato che le parrocchie rimangono presenze vive in una società secolarizzata: la vivacità dei gruppi religiosi, dei gruppi missionari e di volontariato è qualcosa che all’estero non è così facile da trovare».

La fatica del rientro traspare più forte nelle parole di Lucia ed Emiliano Composta, tornati da poco più di un anno dopo un triennio in Mozambico come fidei donum della diocesi di Verona: «Il rientro è duro, da tanti punti di vista. Prima di tutto, si vive una forte nostalgia per il mondo e le amicizie lasciate. C’è bisogno di ritrovare il proprio equilibrio psicofisico: l’adattamento è stato difficile là, il riadattamento non è da meno. E poi inizia il lavoro di mettere in relazione dentro di sé due mondi che sembrano così diversi e lontani, ma ugualmente amati e vissuti, che devono poter coesistere nella mente e nel cuore per non creare fratture, rimorsi, strappi interiori. L’esperienza va rielaborata e in qualche modo tradotta perché dia frutto. Abbiamo trovato tanto calore e solidarietà rientrando nel “nostro” mondo, ma sono rientrate due persone diverse da quelle che erano partite e questo non sempre è compreso e accettato da amici e parenti. Il rientro al lavoro, poi, non scontato soprattutto di questi tempi, deve ritrovare un senso. Non viviamo allo stesso modo l’impegno lavorativo e sentiamo l’esigenza che la nostra attività assuma un orizzonte più “sociale”».

Lucia ed Emiliano (leggi l'intervista completa) non esitano poi a toccare un punto delicato, ovvero ciò che i missionari laici rientrati possono donare alla propria comunità: «Crediamo fortemente nella seconda parte del nostro mandato di fidei donum, quella della “restituzione del dono”. La realtà ecclesiale che ci ha preparati e inviati, con un percorso straordinario, ci ha bene accolti a livello umano, ma non è ancora pronta e organizzata ad accompagnare il rientro, specialmente dei laici, e fatica a trovare canali per rimettere in circolo la ricchezza straordinaria che un’esperienza missionaria come la nostra ci ha regalato. Avendo conosciuto la Chiesa mozambicana, che è molto giovane, “sbilanciata” a favore dei poveri e quasi completamente affidata alla responsabilità dei laici, ci sembra per contrasto che la Chiesa italiana sia ancora molto gerarchica e clericale, preoccupata più di difendere i propri confini che di incontrare le persone nelle loro difficoltà quotidiane, poco aperta alle sfide reali dei tempi, con poco spazio lasciato all’iniziativa dei laici».

MISSIONARI O COOPERANTI?
«La Chiesa non è una Ong», ha detto papa Francesco in una delle sue prime esternazioni. Viene dunque da chiedere ai coniugi incontrati in che cosa si sentono diversi da chi, magari con partner e figli al seguito, lavora nella cooperazione internazionale, anche in organizzazioni di ispirazione cattolica.

«Ci abbiamo riflettuto spesso - rispondono Elisa e Daniele Restelli, rientrati in giugno dalla Bolivia, dove erano stati inviati dalla diocesi di Bergamo (leggi l'intervista completa) -. In origine, infatti, saremmo dovuti partire con una Ong, poi la storia ha voluto che ci fosse rivolto un invito dal Centro missionario diocesano e così la prospettiva è cambiata. Cambia che c’è un invio, il mio lavoro non è a titolo personale, non è solo la mia coscienza che mi muove ma c’è una Chiesa che mi invia a suo nome. Non vado (solo) a svolgere un progetto, la mia presenza ha il sapore della condivisione nella fede. Nel quotidiano questo significa che, più delle opere che costruisco, quel che conta è lo stile con cui condivido il tempo che mi è dato in terra di missione. Le opere hanno valore solo se in esse riesco a far trasparire il volto di quel Dio che si fa compagno di strada».

«Rispetto al cooperante laico - fanno eco Emiliano e Lucia - ci distingue il fatto che nella nostra esperienza viene prima la presenza rispetto al “progetto”, cioè al raggiungimento degli obiettivi per i quali è stato chiesto e ottenuto un finanziamento. Pertanto lo “stare” viene prima del “fare”. Molto spesso, poi, la vita del cooperante si svolge nelle grandi città, dove hanno sede le organizzazioni, e quindi lontani dalle realtà più periferiche. Mentre quello che noi abbiamo scelto e amato della nostra esperienza è stata proprio la prossimità».

Ma non vi sentite un po’ degli eroi? È la domanda finale rivolta a tutti. E la risposta è unanimemente negativa: «Testimoniamo solo che la chiamata a una vita cristiana è per tutti, che non è necessario essere speciali per fare scelte evangeliche. E per la comunità a cui si viene inviati è il segno che quelli che arrivano non sono “professionisti del Vangelo”, ma persone che cercano di vivere la concretezza della fraternità».

Stefano Femminis

© FCSF – Popoli