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Sud Sudan, indipendenza in salita
7 luglio 2011
Sabato 9 luglio nascerà ufficialmente il 54° Stato africano. Il Sud Sudan proclamerà ufficialmente la propria indipendenza da Khartoum con una cerimonia che inizierà a mezzanotte quando sulla nuova capitale Juba verrà ammainata per l’ultima volta la bandiera del Sudan e verrà innalzata quella del nuovo Stato. «È con gioia che salutiamo questo giorno dopo tanta sofferenza e morte! - hanno scritto in un messaggio i padri comboniani Zanotelli, Zolli e Gonzales -. "Ci sono voluti 191 anni di lotte per arrivare a questo traguardo": così ha sostenuto in un messaggio alla nazione il primo presidente del nuovo Stato, Salva Kiir Mayardit. È infatti dal 1820 che i popoli del Sud Sudan hanno lottato contro schiavisti e colonizzatori, sia arabi che europei. Ma anche dopo l’indipendenza del Sudan (1956), il Sud resistette ai regimi oppressivi di Khartoum con due guerre civili, durate quasi 40 anni. Guerre spaventose che hanno fatto almeno due milioni di morti e milioni di rifugiati».

La nascita del nuovo Paese è però accompagnata da una serie di problemi interni ed esterni. «Il primo è la creazione di una classe dirigente democratica - spiega Giovanni Sartor, referente della Campagna italiana per il Sudan (un movimento nato per iniziativa di alcune organizzazioni della società civile italiana) -. Attualmente i politici sono tutti ex guerriglieri. L’esperienza fatta in Somalia e in Eritrea negli scorsi anni ci dice che i capi guerriglieri, abituati al comando militare, solitamente fanno fatica a trasformarsi in politici autenticamente democratici e rispettosi dei diritti umani. Quindi sarà necessario che la comunità internazionale lavori affinché questa tendenza autoritaria sia limitata il più possibile e che si formi un gruppo dirigente rispettoso delle regole democratiche e attento agli equilibri etnico-culturali».
Il Sud del Sudan è infatti un mosaico complesso di etnie che hanno tutte contribuito alla creazione del nuovo Stato e che da questo si aspettano non solo uno sviluppo economico, ma anche una considerazione maggiore di quella che riservava loro Khartoum. «Le aspettative sono molte - continua Sartor -, ma i mezzi sono pochi. Inizialmente gli investimenti saranno concentrati nella regione della capitale Juba. Ciò potrebbe scontentare le province periferiche. Se la classe dirigente non si dimostrerà all’altezza, questo scontento potrebbe trasformarsi presto in conflitto, come è avvenuto in molti Paesi africani in passato».
«Siamo consapevoli delle enormi sfide che attendono il Sud Sudan - sottolinea Antonella Napoli, presidente di Italians for Darfur, promotrice della coalizione internazionale impegnata da anni nella campagna per il Sudan -. Una regione devastata dalla lunga guerra civile e da un sottosviluppo estremamente grave. Ma riteniamo, come i colleghi di Amnesty e Human Rights Watch, che il neo Stato possa e debba adottare da subito una serie di misure per assicurare la protezione, il rispetto e la promozione dei diritti dei suoi cittadini, che hanno dimostrato grande fiducia nel futuro di questo Paese con un voto plebiscitario al referendum per l’autodeterminazione dello scorso 9 gennaio».

Il futuro del Sud Sudan dipenderà anche dai rapporti che Juba saprà instaurare con Khartoum. Su questo piano sono ancora molti i nodi irrisolti, a iniziare dalla definizione dei confini. I recenti scontri tra le truppe di Khartoum e quelle di Juba nel Kordofan meridionale (che appartiene al Nord, ma è abitato da popolazioni legate da sempre al Sud) e nell’Abyei (zona contesa e ricchissima di petrolio) hanno messo a rischio l’accordo di pace del 2005 e la stessa indipendenza. Il 4 luglio il presidente del Sudan Omar Hassan el-Bashir e quello del Sudan Sud, Salva Kiir Mayardit, si sono incontrati ad Addis Abeba e si sono trovati d’accordo sulla necessità di far tacere le armi e di riprendere i colloqui per la definizione dei confini dopo il 9 luglio. Se ci saranno nuovi incontri si discuterà di certo anche di altre due questioni rimaste irrisolte: l’equa ripartizione delle risorse petrolifere (secondo i calcoli del ministero delle Finanze di Khartoum, tra maggio e giugno il Nord ha incassato 569 milioni di dollari, il Sud 396) e la suddivisione del debito pubblico. «Sul petrolio - osserva Sartor - credo che alla fine si raggiungerà un’intesa. In questa partita potrebbe avere un ruolo importante la Cina. Pechino è il maggior acquirente del petrolio sudanese ed è interessato a mantenere questa posizione di privilegio. Da parte loro i sudanesi (sia quelli del Nord sia quelli del Sud) hanno bisogno delle entrate petrolifere. Da questa convergenza di interessi credo che nascerà un accordo. Più complicata la situazione dei confini. Nel Kordofan del Sud e in Abyei ci sono stati scontri durissimi e gravi violazioni dei diritti umani. L’esercito e l’aviazione di Khartoum hanno utilizzato gli stessi metodi “spicci” utilizzati nel Darfur. A pagarne le conseguenze sono i civili. Sono convinto che gli scontri di queste ultime settimane sono dovuti al fatto che i due Stati stanno cercando di posizionarsi territorialmente in maniera migliore, per poi sedersi ad un tavolo e discutere l’accordo».

Complesso anche il quadro internazionale nel quale si inserirà il nuovo Stato. Juba dovrà certamente avere buone relazioni con la Cina (perché è ad essa che venderà la maggior parte del suo petrolio), ma non potrà certo voltare le spalle agli Stati Uniti che hanno finora sostenuto il processo di autodeterminazione sudsudanese. Non è un caso che il vicepresidente sudsudanese Riek Machar è reduce da una missione di tre settimane negli Usa. Qui ha incontrato il presidente Barak Obama al quale ha chiesto che venissero tolte le sanzioni nei confronti di Khartoum che, indirettamente, colpiscono le esportazioni del Sud Sudan (non avendo sbocchi al mare è costretto a utilizzare i porti del Nord). Sempre agli Stati Uniti ha chiesto di investire nel nuovo Paese quasi privo di infrastrutture: strade, ponti, scuole, ospedali, ecc.
«Indubbiamente il Sud Sudan - osserva Sartor - è legato e si legherà sempre di più agli Stati anglofoni dell’Africa orientale e, in particolar modo, Uganda, Kenya e Tanzania. Sarà anche interessante notare quali rapporti stringerà con l’Etiopia. Addis Abeba, fedele alleato di Washington, sta assumendo in questi ultimi anni un ruolo da protagonista nell’area come dimostra l’intervento militare in Somalia nel 2006 e la disponibilità a inviare caschi blu etiopi nell’Abey. Juba potrebbe trovare in Addis Abeba un Paese amico».

I problemi sono molti, ma la popolazione, almeno per il momento, sembra non volerci pensare. «Il morale della popolazione è alto - ha dichiarato all’agenzia Fides padre Martin Ochaya, segretario generale dell’arcidiocesi di Juba -, c’è eccitazione per l’evento. Fervono i lavori per sistemare le strade e imbiancare gli uffici. La popolazione nutre alte speranze per il futuro, perché pensa che, grazie all’indipendenza, la situazionemigliorerà». Sempre che il futuro non sia già ipotecato.
Enrico Casale

© FCSF – Popoli