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Nuove città a misura di rifugiato

Ogni anno, la Giornata mondiale del rifugiato (20 giugno) rappresenta un’occasione di confronto e riflessione sulla condizione di quanti, in fuga da guerre e persecuzioni, abbandonano i propri Paesi di origine cercando protezione nei cosiddetti «Paesi sicuri».

Le statistiche dell’Onu mostrano che, in tutto il mondo, la maggior parte dei rifugiati vive nei centri urbani: da Bangkok a Bogotà, da Nairobi a Roma. Ma è proprio in questi contesti che l’aspettativa dei rifugiati di sentirsi davvero al sicuro viene spesso disattesa: nelle città pensano di trovare maggiori opportunità, ma conoscono, invece, isolamento, mancato accesso ai servizi, insicurezza.

Su questi temi il Centro Astalli invita a riflettere con la campagna annuale «In città, invisibili», lanciata in occasione della Giornata mondiale 2012.

L’invisibilità è il primo problema dei rifugiati che risiedono nei centri urbani. Proprio ai più vulnerabili, le vittime di tortura e di violenza intenzionale, viene spesso impedito di vivere in condizioni dignitose. Si pensi, ad esempio, ai cosiddetti «insediamenti spontanei»: isole di emarginazione, talvolta a pochi metri da stazioni e centri commerciali, che accolgono persone convinte di non avere alternative.

Se pur con livelli di gravità diversi, in tutti questi insediamenti le condizioni abitative sono abbondantemente al di sotto di ogni standard minimo accettabile. Come può accadere? Perché il fenomeno non accenna a diminuire? Quali percorsi pianificare per porre fine a queste situazioni?

Il progetto «Mediazioni Metropolitane» ha cercato di dare una risposta a questi interrogativi. Un’équipe di lavoro ha intervistato 520 richiedenti e titolari di protezione internazionale e ha svolto sopralluoghi e colloqui in otto insediamenti spontanei, tra Roma, Milano e Firenze. Dai colloqui è emerso un diffuso ed esplicito scetticismo degli intervistati rispetto alla possibilità di trovare negli enti territoriali deputati una risposta ai loro bisogni. Più in generale, i rifugiati (oltre il 75% degli intervistati è  titolare di protezione internazionale e l’11,3% ha ottenuto la protezione umanitaria) sembrano aver maturato una profonda mancanza di fiducia nei confronti di uno Stato che «commette ingiustizie» e non riesce a «garantire loro gli stessi diritti che hanno negli altri Paesi europei».

Questo atteggiamento, causa ed effetto dei fenomeni di esclusione e autoesclusione che l’indagine testimonia, purtroppo non è sorprendente, né del tutto immotivato. L’insufficienza cronica dei sistemi di accoglienza per richiedenti e titolari di protezione internazionale nel nostro Paese, sia dal punto di vista strettamente numerico sia da quello dell’efficacia dei percorsi di integrazione proposti, è la causa principale della proliferazione di queste forme di insediamento.

Il sistema di accoglienza italiano, allo stato attuale, non garantisce un’adeguata accoglienza a tutti coloro che ne avrebbero diritto: troppo disomogenee sono le misure messe in campo, troppo episodici e parziali gli interventi per l’integrazione. Serve fare di più, puntando sulle misure che favoriscano l’inclusione lavorativa (oltre l’88% degli intervistati attualmente non è occupato) e la formazione (il 42% conosce troppo poco l’italiano). E ristabilire un dialogo con queste persone, ricostruendo un rapporto di fiducia indispensabile alla riuscita di qualunque percorso.

Fondazione Astalli

© FCSF - Popoli, 1 agosto 2012