Ho attraversato il Mediterraneo all’ottavo mese di gravidanza. Non sono certo pazza. Non avevo alternative. Dovevo scappare, dovevo mettere in salvo almeno mia figlia. E poi meglio entrambe morte in mare che vive in Eritrea o, peggio, in Libia.
Sono una rifugiata eritrea, sposata a un etiope, ma il mio non è un matrimonio misto. Prima della guerra tra i due Paesi non c’era differenza: era come dire che un romano si sposa con una bolognese, la cosa più naturale del mondo.
Eravamo un unico popolo. Era assai comune che etiopi ed eritrei si unissero e formassero nuove famiglie. Poi la guerra tra Etiopia ed Eritrea, voluta da pochi criminali, ha distrutto tutto e tutti: la mia famiglia d’origine è stata letteralmente dilaniata.
La partenza era prevista per le due di notte. Dovevamo recarci in una caletta di mare isolata e incontrarci con i trafficanti e gli altri passeggeri. Quando arrivammo ci venne detto che dovevamo salire su un barcone che si trovava a 30 metri dalla riva.
Avevo un pancione enorme, come avrei fatto a immergermi e arrivare all’imbarcazione che ci avrebbe portato in Europa? Non ebbi il tempo di pensare, mio marito mi prese la mano e piano piano cominciammo ad avanzare nell’acqua.
Non dimenticherò mai quel tratto percorso a piedi. Mi immergevo progressivamente. Le scarpe, i vestiti zuppi diventavano sempre più pesanti. Mi aggrappai a mio marito con tutte le mie forze. Il pancione era tutto immerso, percorsi gli ultimi metri con l’acqua che mi arrivava al collo.
A quel punto salire sul gommone era impossibile. Non riuscivo a sollevarmi. Mio marito prese per il braccio un ragazzo che aspettava di imbarcarsi dietro di noi e insieme mi spinsero su.
Il freddo, il vento e la paura di non farcela furono le costanti del nostro viaggio. Ci vollero tre giorni di navigazione prima di vedere all’orizzonte la terra ferma.
Era l’alba e si intravedeva una striscia marrone, qualcuno urlava «terra, terra!», io cominciai a piangere senza sosta, le lacrime scendevano e non potevo fare nulla per fermarle. Avrei partorito in Europa, il futuro della creatura che portavo dentro sarebbe stato diverso dal mio. Sarebbe nata nel continente della pace e della ricchezza. Ne era valsa la pena.
Approdammo su un’isola, Lampedusa, che non conoscevamo. Ci soccorsero immediatamente. Mi presero in due, mi aiutarono a scendere dalla barca, mi buttarono un telo sulle spalle e urlavano a qualcuno parole che non capivo. Subito dopo si avvicinò un medico e mi portarono in un edificio dove mi fecero sdraiare e mi visitarono. Mi diedero da mangiare e caddi in un sonno profondissimo.
Non ricordo quanto dormii, ricordo solo che al risveglio mio marito era accanto a me. Fu molto rassicurante e mi ripeteva in un orecchio: «Ce l’abbiamo fatta. Siamo vivi e al sicuro».
Testimonianza raccolta da
Fondazione Astalli
La foto non si riferisce
ai soggetti descritti nell’articolo
STOP AL TRAFFICO DI ESSERI UMANI
Il 10 settembre 2013, Papa Francesco visitava a Roma il Centro Astalli - Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati in Italia. Accadeva due mesi dopo il suo viaggio a Lampedusa. Un filo ideale unisce le due tappe di un percorso che il pontefice compie dall’inizio del suo pontificato a sostegno dei rifugiati.
Il 3 ottobre 2013 abbiamo assistito impotenti al naufragio di Lampedusa. Le proporzioni eccezionali di quella tragedia (366 eritrei morti, tra i quali donne e bambini) potevano essere l’occasione per un cambiamento. Invece c’è stata la solita ondata emotiva e, dopo, di nuovo indifferenza e silenzio. Erano passati appena tre mesi dalla visita di Papa Francesco a Lampedusa e dal suo monito: «Neanche più un morto nel Mediterraneo». Ma la silenziosa strage nel mare e nel deserto continua.
L’operazione Mare Nostrum ha salvato molte vite ed è uno sforzo ammirevole da parte delle autorità italiane. Resta, però, senza risposta la domanda più importante: come si può evitare che persone che hanno diritto alla protezione siano costrette a viaggiare in condizioni tanto rischiose e costose? Da tempo il Centro Astalli chiede di creare canali umanitari che permettano di far arrivare in sicurezza chi ha diritto a chiedere asilo in un Paese democratico, sottraendo a trafficanti senza scrupoli il destino di migliaia di rifugiati.