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Maurizio Ambrosini
Università di Milano, direttore della rivista Mondi migranti
«Ci rubano il lavoro»: anatomia di un pregiudizio
Sappiamo che l’immigrazione provoca ansie e paure. Archiviate almeno per il momento «zingaropoli» e la più grande moschea d’Europa, slogan perdenti nelle elezioni milanesi, un’altra paura continua a dominare il campo: gli immigrati rubano il lavoro agli italiani, soprattutto ai più deboli. E per di più in tempi difficili come questi, quando sarebbe meglio spingerli a rientrare nel loro Paese, ed evitare di farne arrivare altri.
È un tipico esempio di pregiudizio «razionale», almeno apparentemente: un pregiudizio, cioè, che cerca argomenti pubblicamente difendibili e possibilmente condivisibili per chiudere le porte agli immigrati.
Come mostrano i sondaggi diretti da Ilvo Diamanti (Fondazione Unipolis), nell’arco del tempo sono cambiate le motivazioni dell’ostilità degli italiani verso gli stranieri: se nel 2007-2008 spiccava la questione della sicurezza, oggi è balzata in primo piano l’occupazione. A quanto sembra, una parte degli italiani ha deciso a priori che l’immigrazione è una minaccia. In seconda battuta trova le motivazioni di volta in volta più accettabili per dare credibilità alle proprie idee.
Quanto al problema della competizione nel mercato del lavoro, occorre tener presenti alcuni aspetti. Primo: il mercato del lavoro è segmentato, ossia formato da settori e nicchie poco comunicanti. Per fare un esempio, è improbabile che un posto di lavoro operaio che si rende disponibile a Brescia venga occupato da un disoccupato di Palermo. Secondo: più di tre giovani su quattro arrivano oggi al diploma di scuola secondaria superiore. Improbabile vederli arrampicati sui ponteggi edili o ad assistere persone anziane 24 ore al giorno. Terzo: certi lavori si creano o si mantengono proprio perché sono coperti da persone immigrate, magari neoarrivate. L’esempio tipico è proprio quello dell’assistente domiciliare fissa, detta volgarmente badante: un lavoro che praticamente non esisteva prima dell’immigrazione dall’estero. In altri termini, italiani e immigrati generalmente cercano e trovano lavoro in ambiti diversi, non intercambiabili.
In merito all’aspettativa del ritorno, va rilevato che raramente gli immigrati accettano di tornare al loro Paese da «sconfitti». Sono partiti, magari indebitandosi, nella speranza di migliorare. Come mostra il caso spagnolo, nemmeno in cambio di aiuti economici desiderano rientrare in patria. Non si sa perché in Italia si è diffusa la leggenda di grandi numeri di immigrati rientrati, o pronti a partire, o che avevano fatto rientrare le famiglie. Basta vedere i dati delle iscrizioni nelle scuole e dei ricongiungimenti per verificare che non è vero: circa 673mila nel 2009-2010, e continuano a crescere; 59mila ricongiungimenti nel 2009 (cfr Caritas-Migrantes, Dossier statistico 2010). Si è verificato un rallentamento negli arrivi e nelle ricomposizioni delle famiglie, non un’inversione di tendenza.
La strategia di resistenza di molte famiglie immigrate in questi tempi difficili passa piuttosto per un aumento della partecipazione al lavoro delle donne: le loro occupazioni nell’ambito delle famiglie sono meno soggette al ciclo economico. Oppure passa per l’apertura di una partita Iva, o per la mobilità sul territorio. Raramente per il ritorno.
C’è un ambito dove invece la competizione esiste e fa male: è l’economia sommersa, dai campi di pomodori ai cantieri edili ai servizi domestici. Il problema però è quello di lottare seriamente contro il lavoro nero, di punire chi lo sfrutta e di premiare la legalità. Ma su questo terreno la volontà politica difetta, e non da oggi.

© FCSF – Popoli, 1 agosto 2011