Ho incontrato a Parigi il comandante Amin Wardak, uno dei più efficaci combattenti contro i sovietici negli anni Ottanta, poi esiliato in Francia a causa della guerra civile che ha portato al potere i talebani nel 1996. Appartenente alla maggioranza sunnita pashtun (la stessa popolazione del montagnoso Waziristan nel Pakistan occidentale, alla quale appartiene il grosso dei talebani), il mio amico è figlio d’un capo tribale sufi. La sua idea dell’islam è moderata; non nel senso d’una tiepidezza della fede, ma al contrario nella forte convinzione religiosa che l’islam è armonia, giustizia e conciliazione. Christine de Pas ha curato l’edizione delle sue Mémoires de Guerre, per l’editrice Arthaud. Il libro dà un’idea attendibile della questione afghana: l’autodeterminazione d’un popolo composito e l’evoluzione dell’islam, in relazione alla modernità e l’Occidente (compreso il mondo sovietico). Alla presentazione del libro, l’essenziale era aprirci al dolore d’un intero popolo rappresentato da quest’uomo dignitoso e irascibile. Mi ha dedicato una copia delle sue memorie: «Ecco la storia d’un popolo che ha lottato per la libertà del mondo intero e che oggi purtroppo si fa schiaffeggiare da tutti». La conclusione della serata è stata chiara: i talebani sono invincibili perché la loro base popolare è autentica e capillare e si prolunga nelle province occidentali del Pakistan. Nessuno può riuscire a occupare le loro regioni in modo duraturo. L’alleanza con al-Qaida di Ben Laden è dovuta alla lealtà sacra creatasi durante la guerra contro i comunisti finanziata dagli americani e dai sauditi con la collaborazione pakistana. Nel 2001 quella solidarietà era ancora troppo forte e il tradimento troppo inconcepibile perché Ben Laden e i suoi uomini fossero consegnati (all’epoca ero tra coloro che credevano che la guerra si potesse evitare non assimilando al terrorismo tutti i combattenti musulmani stranieri e che si doveva offrir loro un corridoio d’uscita dall’Afghanistan onde rendere l’invasione ingiustificata…). La convinzione di Amin Wardak è che gli afghani possano ritrovarsi intorno al loro islam tradizionale (passibile d’evoluzione se non è strapazzato dagli stranieri), ricostruire la loro unità e riunire le condizioni del loro sviluppo. L’appello è chiaro: lasciateci decidere da soli, andatevene subito. A me è parso di capire che un ritiro intelligente e non malintenzionato degli occupanti occidentali si potrebbe realizzare in modo da evitare la ripresa della guerra civile in Afghanistan e l’esplosione del Pakistan. Certo, l’interpretazione della religione promossa dai talebani è poco digeribile ai più; ci saranno nuove categorie di profughi da assistere; il rischio di ricreare un paradiso per i «terroristi» è innegabile, ma, a lungo andare, la nazione talebana evolverà insieme a tutta la regione verso una pratica religiosa meno fondamentalista. Ovviamente questo significa che il Pakistan dovrà a sua volta riconoscere una più esplicita autonomia delle regioni pashtun, affrontando i rischi dell’organizzazione federale e l’eventualità della perdita dell’unità nazionale. Mi son letto il discorso di Obama a West Point all’inizio di dicembre. Egli rifiuta l’analogia con il Vietnam e indica tre condizioni per andarsene degnamente a partire dal luglio 2011: uno sforzo militare, una ripresa civile, un partenariato efficace con il Pakistan. Un vecchio siriano della legione straniera mi raccontava che i vietcong venivano ad arruolarsi nell’esercito franco-vietnamita per farsi addestrare e poi boicottare dal di dentro. Adesso i talebani sanno che devono solo aspettare che il nemico se ne vada; verranno in molti ad arruolarsi nella polizia afghana… La Nato ha già perso la guerra, ma c’è modo e modo!
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