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Cinema e Popoli
Luca Barnabé
Critico cinematografico
C’era una volta in Anatolia
Una delle opere più intense e complesse del Festival di Cannes 2011 (Gran premio della Giuria, ex aequo con Il ragazzo con la bicicletta dei fratelli Dardenne) è stata C’era una volta in Anatolia (Bir Zamanlar Anadolu’da) di Nuri Bilge Ceylan, già autore di un capolavoro impegnativo e potente come Lontano (Uzak).
Come quasi tutti i film dell’autore turco, anche C’era una volta in Anatolia richiede uno sforzo da parte dello spettatore (i tempi dilatati, la lunghezza di oltre due ore e mezza), sforzo ripagato da un racconto visivo-sonoro struggente e universale.
I rimandi vanno da Cechov (i dettagli rivelatori, l’umanità di certi personaggi) ad Antonioni (il mistero dell’uomo, la noia, il finale aperto), fino al quasi omonimo Céline: tutto il film è una sorta di lungo e disperato «viaggio al termine della notte», in cui realismo e febbrili sogni a occhi aperti sono impastati insieme. Ceylan ci costringe a riempire i silenzi, a colmare i vuoti e le ellissi, ad ascoltare il frusciare degli alberi, il vento e le profondità della notte che, come insegna Fellini, pare ci parlino, basta mettersi ad ascoltare. Obbliga ad andare oltre le parole vuote di certi personaggi e cercare di cogliere più senso dai loro volti, da una frase mozzata, un discorso interrotto. Come nella vita, a volte la verità emerge dall’inatteso, quando l’uomo smette finalmente le maschere sociali.
C’era una volta in Anatolia, dal 15 giugno nelle sale italiane, è una sorta di poliziesco metafisico, in cui le vere indagini, più che il ritrovamento di un cadavere, riguardano il mistero dell’uomo, della morte, della violenza e del dolore.
In una notte buia, le steppe illuminate solo dai fari abbaglianti delle auto, alcuni poliziotti sono alla ricerca del cadavere di un uomo assassinato e sepolto nella campagna sperduta, popolata solo da cani randagi e corvi. Campi lunghissimi, il nero tagliato dai fanali in movimento. Un poliziotto in primo piano parla, ma le labbra restano chiuse, udiamo le sue parole fuori campo, come fosse già morto a sua volta e parlasse da un altrove.
Il sospettato (chiamato quasi sempre con un numero di matricola anziché con il nome) nasconde un segreto, ma anche questo resterà appena accennato.
La struttura del film è quella in «tre atti». I veri protagonisti - oltre alla notte - sono tre uomini diversi, uno per atto: un poliziotto, un procuratore, un medico. Tutti e tre sono provati dal dolore o da un lutto che emerge dalle chiacchiere in auto o dai loro sguardi segnati dalla vita. Dei tre, il medico pare il più lucido: silenzioso, ottimo osservatore, capace di giudizi critici, ma anche di rara umanità. È l’unico che cerca di dare il conforto di una sigaretta al sospettato in manette.
L’opera di Ceylan ha una forza unica e universale nel restituire la vita di un gruppo di uomini stanchi e letteralmente perduti. Il resto è l’oscurità della campagna che pare vivere e vibrare come nella realtà.
Scrive Céline in Viaggio al termine della notte (Corbaccio 2005, p. 191): «E la notte con tutti i suoi mostri entrava allora in ballo tra mille e mille rumori di gole di rospo. La foresta aspetta solo il loro segnale per mettersi a tremare, fischiare, muggire da tutte le sue profondità...».

© FCSF – Popoli, 1 giugno 2012