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Lettere da Strasburgo
Rosario Sapienza
Ordinario di Diritto internazionale e Diritto dell'Unione europea nell'Università di Catania
Cognome della madre ai figli, considerazioni sulla sentenza
Con sentenza camerale emessa lo scorso 7 gennaio dalla seconda sezione la Corte europea dei diritti dell’uomo (clicca qui per leggere il testo completo) ha riconosciuto, con un voto a maggioranza, che l’Italia ha violato la Convenzione europea impedendo ai ricorrenti (ric. n. 77/07), i coniugi Alessandra Cusan e Luigi Fazzo, di attribuire alla loro figlia Maddalena il cognome della madre, piuttosto che quello del padre. In particolare, la Corte ha convenuto che  la regola seguita in Italia, secondo la quale i figli prendono il cognome del padre, costituisce una discriminazione nei confronti della madre e dunque una violazione dell’articolo 14 della Convenzione, che vieta i trattamenti discriminatori,  letto in combinato con l’articolo 8 che tutela la vita familiare e matrimoniale. La Corte ha inoltre ritenuto che, avendo riconosciuto l’esistenza della discriminazione, non ci fosse motivo di esaminare la questione sotto i distinti profili del ricorso relativi alla pretesa contrarietà del comportamento statale con l’articolo 8 autonomamente considerato o l’articolo 5 del Settimo Protocollo addizionale che dispone per l’eguaglianza di diritti degli sposi nel matrimonio.

A nostro parere, invece, e  con tutto il  rispetto che si deve alla Corte,  la questione avrebbe dovuto essere affrontata proprio a partire dagli articoli 8 della Convenzione e 5 del Settimo Protocollo addizionale, piuttosto che come una questione di discriminazione.  Vero è che la preferenza per il cognome del marito si basa sul convincimento che la nuova famiglia nata dal matrimonio vada in qualche modo intestata al marito stesso e che vari fattori, incluso ad esempio il fatto che la donna maritata non cambi più il suo cognome in quello del marito, mostrano che questa idea non è più attuale e forse, al limite, discriminatoria. Ma non si vede dove stia nel caso di specie la discriminazione quando sia la moglie che il marito chiedono di poter usare il cognome della moglie.

Comunque, la sentenza della Corte è stata in generale accolta favorevolmente  in Italia e salutata come un importante contributo allo svecchiamento di prassi radicate in concezioni non più attuali dell’istituto matrimoniale e della convivenza familiare. E di fatto è così e per questo motivo essa va senz’altro approvata. Residuano, però, alcuni punti sui quali vorrei aggiungere qualcosa.

In primo luogo, resta da vedere adesso in che modo l’Italia si conformerà alla decisione, dato che appare improbabile che il Governo italiano intenda avvalersi della possibilità di adire entro tre mesi la Grande Camera della Corte, possibilità offerta dall’articolo 43 della Convenzione a ciascuna delle parti in causa e autorizzata quando  “la questione oggetto del ricorso solleva gravi  problemi di interpretazione o di applicazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, o comunque un’importante questione di  carattere generale” e questo non pare essere il caso.  Va peraltro rilevato che, ancorché tardivamente, il 14 dicembre 2012 il prefetto di Milano aveva autorizzato la minore a utilizzare il doppio cognome (Fazzo Cusan).  Inoltre,  è lecito domandarsi in quale maniera andrebbe disciplinata la questione: sarebbe per esempio possibile che in una stessa famiglia, alcuni figli avessero il cognome della madre e altri quello del padre? E come ci si regolerebbe nel caso di dissenso fra i coniugi?

Vorrei inoltre segnalare, in diversa prospettiva, e in ciò concordando con quanto afferma il giudice serbo Popović nella sua opinione dissidente, che in fin dei conti qui non siamo davanti a questioni di diritti violati (e men che meno di discriminazioni), ma piuttosto abbiamo a che fare con tradizioni socialmente consolidate, come ad esempio quella spagnola secondo la quale un individuo ha assai spesso un cognome composito le parti del quale provengono dai cognomi della madre e del padre.

10/01/2014