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L'ultima Parola
Silvano Fausti
Gesuita, biblista e scrittore
Cristiani a parole o con i fatti?
«Enea, alzati e rifatti il letto! (...) Tabità, alzati» (leggi Atti 9,32-43)

Dopo la conversione di Paolo (cfr Popoli n. 6-7/2013), l’attenzione torna su Pietro. Questi, fin dall’inizio, subisce con Giovanni un arresto (At 4,1-22). Ne segue un secondo, insieme a tutto il collegio apostolico, che finisce con una liberazione miracolosa e un ulteriore arresto con fustigazione. La difesa di Gamaliele ferma le persecuzioni contro gli apostoli (At 5, 17-42). Quelle successive sono contro Stefano e gli Ellenisti, perché aprono la fede cristiana a chi non va al Tempio.
Invece gli apostoli stanno tranquilli, fino a quando arriva Paolo. La sua predicazione scatena una nuova persecuzione. Allora i fratelli lo conducono a Cesarea e lo spediscono a casa sua, a Tarso. Finalmente torna un periodo di pace per la Chiesa. Pietro ora può muoversi. Visita e incoraggia le nuove comunità, che vanno aumentando e moltiplicandosi. In questa visita pastorale il suo «palazzo apostolico» sarà la casa di Simone il conciatore. Qui, a fiuto, lo potranno trovare anche gli inviati del centurione Cornelio, per «tradurlo» nella casa di un pagano. La tradizione dice che Pietro rimase circa 12 anni a Gerusalemme. I suoi precedenti «palazzi» sono stati il Cenacolo, il tribunale e il carcere, dove tornerà prima di scomparire definitivamente dalla scena (At 12,1-17). Da allora sarà come Gesù, Signore suo e dell’universo, che non aveva «sovranità territoriale» neppure su un sasso dove posare il capo.
L’iconografia presenta Pietro e Paolo per lo più insieme. Sono i protagonisti degli Atti. L’intreccio tra le due figure sottolinea la loro unità e complementarietà. Hanno doni diversi. Pietro è il pastore. La sua esperienza di rinnegatore di Gesù, il quale non lo rinnega, lo fa testimone della certezza della fede: è la fedeltà del Signore a lui, infedele. Paolo è il dottore. La luce di Damasco, con la sua elevata intelligenza e formazione, lo fa testimone del contenuto della fede: è l’amore di Dio per ogni uomo, suo figlio. Nella Chiesa nessuno ha tutti i carismi. Le nostre povertà, accolte e accoglienti, ci mettono in comunione. Così diventiamo l’unico corpo di Cristo, assimilati a Dio, che è unità d’amore nell’alterità.
I miracoli degli Atti, come quelli dei Vangeli, sono segni che portano alla fede nel Crocifisso glorificato. Il primo miracolo di Pietro fu «programmatico» (At 3,1ss): liberò l’uomo dalla paralisi perché, camminando verso il Padre e i fratelli, diventasse figlio di Dio. Ora vediamo altri due miracoli «pastorali» di Pietro, mentre visita le neonate comunità. Riguardano due battezzati, Enea - l’uomo che sta a letto da otto anni! - e Tabità, la donna ricca di buone opere. Sono due modelli opposti di vita cristiana, uno negativo da curare e uno positivo da imitare.
Enea è il cristiano medio: dopo il fervore degli inizi, vivacchia da anni nel letto delle sue comodità. Adagiato nei suoi egoismi quotidiani, si fa servire dagli altri. Senza questo «miracolo pastorale», vivrebbe da morto sino alla morte. Tralcio che non porta frutto, è un credente a parole, non coi fatti e nella verità (1Gv 3,18). Forse Enea è figura di Pietro. Egli stava tranquillo a Gerusalemme e dintorni, senza correre pericoli, vivendo insieme da buon giudeo praticante e credente in Gesù. La persecuzione mantiene la Chiesa viva e fedele alla sua missione. La tranquillità rischia di metterla a letto come Enea o di farla morire come Tabità. La funzione del pastore Pietro è stimolare chi sonnecchia nel dolce far nulla e risuscitare lo spirito di chi testimonia il Cristo con l’amore concreto verso i fratelli (1Gv 3,14!). Il pastore stesso non sia come Enea, ma come Tabità. Non spadroneggi sul gregge, ma ne diventi modello (1Pt 5,3): tolga da sé ciò che, nel suo modo di vivere e agire, non è conforme a Cristo.



© FCSF – Popoli, 5 settembre 2013