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Cinema e Popoli
Luca Barnabé
Critico cinematografico
Des hommes et des dieux

Marzo 1996. Nel corso del sanguinoso conflitto tra lo Stato d’Algeria e il Gruppo islamico armato (Gia), sette monaci trappisti del monastero di Tibhirine, sulle montagne dell’Atlante, furono rapiti da un gruppo di fondamentalisti armati. Due mesi dopo vennero ritrovate le teste dei sette religiosi senza più corpo. Nel 2009 l’inchiesta sulle responsabilità del massacro è stata riaperta grazie al reportage del giornalista americano John Kiser. Des hommes et des dieux di Xavier Beauvois (premio della giuria a Cannes) narra tutto quello che succede prima della tragedia, lasciando quasi fuori campo lo svolgersi dell’atroce martirio. Il sacrificio nel sangue è chiaro proprio in quanto non inquadrato, suono lugubre, ferita buia. Nero. Beauvois evita così ogni possibile strumentalizzazione ideologica, «santino» martirologico o bandiera di sangue. Mette a fuoco i fatti e la straordinarietà dei sette anti-eroi cristiani che decidono di restare nel monastero, nonostante le ripetute minacce, non per ingenuità, ma perché non sono disposti a trattare la propria fede e la propria libertà per nessuna ragione, nella consapevolezza profonda che quello è il loro posto nel mondo: le montagne del Maghreb e l’utopia concreta di una comunità multireligiosa. Più efficacemente, nelle parole di padre Christian (straordinario Lambert Wilson): «Non temo la morte, sono un uomo libero».
Il regista mostra i giorni e le notti di preghiera, canto, convivenza dei frati con i musulmani del villaggio, scambi di parole, vita dei campi, normale quotidianità umana. Se Il grande silenzio di Philip Gröning indugiava sui momenti ben distinti tra la preghiera, il lavoro e i giochi dei «suoi» monaci, Des hommes et des dieux non divide quasi mai il rito e la vita. La comunione del gruppo con la terra, con gli altri e con l’Altissimo sembrano una cosa sola. Soltanto la messa di Natale ha una solennità e una straordinarietà che si distinguono dal fluire dei giorni, fuori e dentro la chiesa. Il rito si fa così unico. Il canto sembra ora l’unica speranza, l’unico modo per farsi coraggio l’un l’altro dentro la solitudine, mentre la minaccia si materializza fuori dalle mura.
Nella realtà Tibhirine, «piccolo giardino» per i berberi che parlano la lingua cabila, oggi esiste ancora ed è tenuto vivo insieme al ricordo dei suoi confratelli da padre Jean-Marie Lassausse. «Non temo la morte, sono un uomo libero».

 

© FCSF – Popoli, 1 ottobre 2010