Home page
Webmagazine internazionale dei gesuiti
Cerca negli archivi
La rivista
 
 
 
Pubblicità
Iniziative
Siti amici
Idee
Cerca in Idee
 
Cinema e Popoli
Luca Barnabé
Critico cinematografico
Gangor

Può una fotografia scattata con le migliori intenzioni generare una violenza inattesa? Questo è l’interrogativo suggestivo e senza soluzione definitiva che si pone il regista di cinema e teatro Italo Spinelli, nipote del grande Altiero (antifascista, coautore del fondamentale Manifesto di Ventotene e fondatore del movimento federalista europeo).
Il suo Gangor, nelle sale dall’11 marzo, trae ispirazione da un racconto breve di Mahasweta Devi, una delle voci più importanti della letteratura bengalese, contenuto nella Trilogia del seno (ed. Filema). Racconta la storia di Upin (Adil Hussain) e Ujan (Samrat Chakrabarti), due affermati reporter indiani, che si spingono fino a Purulia, nel Bengala occidentale, per un reportage sulle violenze perpetrate sulle donne tribali.
Qui Upin incontra Gangor (interpretata dalla fulgida donna indiana Priyanka Bose), ne resta folgorato, la convince con poche rupie a posare per lui, ne scatta una fotografia a seno nudo, il volto reclinato verso il basso, lo sguardo triste per le sevizie quotidiane. Quella foto senza veli schiaffata in prima pagina con un articolo di denuncia farà sì che la polizia si accanisca ancora di più contro Gangor e il suo giovane corpo.
Lo sguardo di ogni fotografo spesso è tormentato dal tempo di uno scatto: «Posso aiutare il soggetto fotografato, che nel momento stesso in cui ritraggo diventa oggetto-immagine, con un’azione immediata che non sia la mia fotografia?». E ancora: «La mia fotografia, frammento fragile, può avere un effetto diverso dalle mie intenzioni?».
La fotografia, ogni fotografia, è una porzione minuscola di un contesto, decontestualizzata o letta in maniera aberrante può sviare il senso dalla verità. Spinelli riesce a mettere a fuoco il tema tristemente eterno della violenza culturale all’interno della violenza concreta e altrettanto senza fine sulle donne del mondo. Muove la macchina da presa tra le bidonville, la sporcizia, la povertà che tocca con lo sguardo. Alterna sequenze sulle meraviglie della cultura indiana con scene di ingiustizia e sfruttamento.
Upin, benché indiano, sembra quasi assumere il nostro sguardo di occidentali, inadeguati, armati delle migliori intenzioni, spesso di macchina fotografica o videocamera, ma altrettanto spesso incapaci di accostarci a un mondo altro senza violarlo, anziché denunciare davvero ciò che andrebbe denunciato. Roberto Rossellini notava: «L’India è come un grande stomaco: da sempre ha assorbito le culture con le quali è entrata in contatto, le ha assimilate e le ha fatte sue».
Ecco perché, forse, Upin sembra un fotogiornalista americano, europeo, o semplicemente straniero. Salvo poi tornare sulle tracce di Gangor per aiutarla a rischio della propria vita. Ultimo viaggio a ritroso che un vero reporter «straniero» difficilmente compie. Un film che andrebbe mostrato nelle scuole che formano i reporter e il loro sguardo sul mondo. 



 

© FCSF – Popoli, 1 aprile 2011