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Cinema e Popoli
Luca Barnabé
Critico cinematografico
I figli della mezzanotte
Deepa Mehta, una delle più stimate autrici indiane contemporanee (Heaven on Earth, Water), condensa in circa due ore e mezzo la storia delle ultime quattro generazioni indiane e uno dei migliori e poderosi libri di Salman Rushdie (Midnight’s Children) del 1981.
Allo scoccare della mezzanotte, il 15 agosto del 1947, l’India dichiara la propria indipendenza dalla Gran Bretagna. Contemporaneamente, mentre la popolazione è in festa, un’infermiera, convinta di agire seguendo un senso di giustizia sociale, sostituisce due neonati nelle culle. Uno, Saleem, è figlio illegittimo di una donna povera, morta dopo il parto. L’altro, Shiva, è il figlio di una coppia altoborghese.
Tutti i bimbi nati alla mezzanotte del giorno dell’indipendenza hanno fra loro un inspiegabile rapporto telepatico.
Nelle mani e nello sguardo di un autore americano, oppure di un indiano di Bollywood, un racconto che mescola realtà e fantasia, Storia e magia, diventerebbe inevitabilmente un kolossal strappalacrime e ridondante. Mehta, invece, agisce sorprendentemente in sottrazione, proprio quando sarebbe lecito aspettarsi colpi di scena, effetti speciali o scene madri. L’incontro fra il «puro» Saleem e i fantasmi degli altri «figli della mezzanotte» non è mai spettacolarizzato troppo, magniloquente, bensì messo in scena come se fosse qualcosa di simile a un sogno a occhi aperti. Il «realismo magico» del film, uscito nelle sale italiane alla fine di marzo, riesce così in poche sequenze a restituire una delle peculiarità più affascinanti della cultura indiana capace di mescolare materia e meraviglia, tangibile e intangibile, i quattro elementi e ciò che non si vede con gli occhi.
Saleem, la cui voce narrante fuori campo, da adulto, in lingua originale è dello stesso Rushdie, ci dice: «Gran parte di ciò che conta nelle nostre vite avviene in nostra assenza; e la mia vita è iniziata proprio sulla riva del fiume Dal, nel Kashmir, oltre trent’anni prima che io nascessi…».
I frammenti documentari in bianco e nero si amalgamano con lo sguardo di Saleem su quello che c’è, ma gli altri non vedono, e su quello che avviene comunque in nostra assenza.
Per il resto non mancano le stoccate alla borghesia indiana che, come ha ben raccontato Pier Paolo Pasolini in L’odore dell’India (1961), è segnata: «da una sproporzione quasi disumana nei rapporti con la realtà in cui essa stessa vive, e in cui vivono le enormi masse di sottoproletari che la circondano come oceano. È vero che i borghesi indiani ci nascono, in quell’inferno: in quelle città informi e affamate, in quei villaggi costruiti di fango e sterco di vacca […]. Ciò nonostante, ne pare traumatizzata. Ne è resa quasi afasica o almeno afona.».
Non è un caso che sia una madre a cercare di difendere e riconoscere il figlio come «proprio», anche se non di sangue: il senso di umanità e pietà riparte da una donna, non importa di quale classe sociale.


© FCSF – Popoli, 1 maggio 2013