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Cinema e Popoli
Luca Barnabé
Critico cinematografico
I ponti di Sarajevo
A cent’anni dalla prima guerra mondiale, tredici registi europei riflettono sulla città di Sarajevo, dalla Storia remota (l’assassinio di Francesco Ferdinando, il 28 giugno 1914, e i milioni di morti che ne sono seguiti) alla tragedia del conflitto nei Balcani sul finire del «Secolo breve». Fino a oggi.

Passato e presente sembrano spesso compresenti,
impastati in un collage di immagini e suoni, parole, volti, letture, cartoon, morte e sangue. Tra immaginazione, verità storica e invenzione, fermo immagine e movimento, il mosaico di punti di vista e di voci mette a fuoco - o fuori fuoco - le certezze dello spettatore.
A fare da cornice a ogni episodio/capitolo: le animazioni dorate e simboliche di François Schuiten e Luís da Matta Almeida che mostrano mani che si sfiorano, si accarezzano, si congiungono fino a formare un ponte «umano» di due braccia tra diversi punti geografici.

Il «ponte» può essere attraversato da persone festanti, abbracci sporadici, o in conflitto, o esplodere all’improvviso. Il fiume sottostante - forse il Bosna, forse il Miljacka - è solcato da bare che galleggiano, centinaia di bare.
Il film comincia con l’episodio di Kamen Kalev, che mostra Francesco Ferdinando e la moglie in una piscina. Hanno avuto un sogno premonitore di morte e il destino pare segnato. Lo sguardo di Kalev è febbrile, come quello in macchina dell’attore che interpreta l’arciduca. La Storia si fa incubo a occhi aperti. Il capitolo successivo racconta in voce fuori campo il flusso di coscienza del giovane attentatore bosniaco, Gavrilo Princip. Le parole di Princip si contrappongono e sovrappongono a immagini contemporanee di ragazzi che registrano una trasmissione radio. Il passato è (com)presente.

I due episodi più potenti, però, sono L’avamposto di Leonardo Di Costanzo e I ponti dei sospiri di Jean-Luc Godard. Nel primo, il regista de L’intervallo mostra un umanissimo caso di diserzione. «Signor tenente, io non ci vado, io non esco!»: un soldato rifiuta di eseguire gli ordini. Non vuole andare a morire, dopo avere visto cadere tutti i commilitoni usciti in avanscoperta sul fronte, uccisi da un cecchino. Furono circa 240mila i soldati italiani condannati a morte o alla prigione per insubordinazione, diserzione o automutilazione. Di Costanzo riesce con pochi personaggi e un pugno di inquadrature a rendere l’ombra di follia, condanna e tragedia che ogni guerra porta con sé. Un canalone innevato come tomba a cielo aperto, il crepitare dei fucili si fa assordante nel vuoto.

Godard, invece, realizza un’opera grandiosa di pochi minuti sull’illusione ottica e la tragedia delle immagini che nel tempo risultano ormai svuotate della loro potenza nel raccontare la guerra. Sembra evocare le parole di Frédéric Rousseau nel Bambino di Varsavia (ed. Laterza): «Una fotografia “simbolo” è ancora in grado di parlarci o la guardiamo senza più vederla?». Il padre della Nouvelle Vague mescola immagini cinematografiche di finzione a fermo immagine di «vere» fotografie, epoche diverse, formati contrapposti. L’effetto è quello richiamato dalla voce fuori campo e dai caratteri grafici in sovrimpressione: la tragedia in immagini e la tragedia dell’immagine, falsificabile, manipolabile e fragile.

Godard gioca - seriamente - con le parole: «Faux-tographe» dice, ovvero Falsografia. «Archi-faux», arcifalso. Pare suggerire che, anche nel rappresentare la guerra, nulla è «obiettivo» nell’obiettivo. È tutta una questione di «spirito» e di sguardo, prima ancora che della materia usata per racchiuderlo.


© FCSF - Popoli agosto 2014