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Cinema e Popoli
Luca Barnabé
Critico cinematografico
Il figlio dell’altra
Durante la visita per il servizio di leva nell’esercito israeliano, il gruppo sanguigno del giovane Joseph non risulta biologicamente compatibile con quello dei genitori. Dal test del Dna risulta figlio di una famiglia palestinese. Alla sua nascita in ospedale è stato infatti scambiato, per errore, con il coetaneo palestinese Yacine. A dispetto del nome, Yacine «è» Joseph e viceversa? La verità sulla nascita manda in cortocircuito le rispettive identità, le convinzioni dei ragazzi e delle due famiglie.
Il figlio dell’altra, presentato all’ultimo Torino Film Festival e nelle sale italiane dal 31 gennaio, parte da uno spunto quasi da feuilleton d’altri tempi o da pochade - lo scambio nella culla - per raccontare il dramma reale delle divisioni, delle barriere concrete e metaforiche tra Israele e Palestina.
L’identità è patrimonio genetico o culturale? La regista Lorraine Lévy (sorella del più noto scrittore Marc) mostra come ogni pregiudizio sia soprattutto un fatto mentale, barriera, gabbia. L’identità risiede in noi, nell’apertura mentale, nelle amicizie, nella famiglia, nella relazione con le persone che ci amano, in ciò che ci piace fare ed essere, senza le briglie imposte dalle istituzioni e i reticolati creati dagli eserciti.
Lévy ha uno sguardo da documentarista e da antropologa nel muoversi nei check point di confine, da un ambiente all’altro, da una terra all’altra (che poi sarebbe la stessa, lacerata e ferita dal filo spinato).
Le intenzioni dell’autrice sono le migliori, ma l’impressione è che a volte il film sia un po’ troppo «scritto», calcolato, prevedibile. Gli ottimi giovani attori rendono efficaci i propri personaggi, ma l’aspetto più interessante dell’opera, ovvero il camminare lungo o attraverso le barriere, l’assurdità di ogni muro, è già stato mostrato attraverso altro cinema più diretto ed efficace come Mur (2004) di Simone Bitton. Molto suggestive le riprese notturne che seguono Alon (Pascal Elbé), il padre di Joseph, a ridosso del confine, alla ricerca del figlio (non biologico). Sono state realizzate davvero, alle due di notte, a ridosso del muro nei Territori e poi interrotte dalla polizia israeliana.
Lo sfondo del film racconta come, dopo la costruzione del muro, occorra ancora più tempo perché i saluti di pace, salam e shalom, possano essere l’uno la risposta dell’altro. Ci dice come prendano corpo le parole «mai in pace» e delinea un inquietante profilo concentrazionario, un confine anomalo, costruito dai bull­dozer, che andava invece concepito secondo gli insegnamenti di Yitzhak Rabin, ovvero una frontiera reale per gettare le basi per un vero Stato palestinese. Adesso c’è soltanto un’ulteriore barriera da abbattere e una geografia da riscrivere ancora.
I «fratelli» ideali Joseph e Yacine sembrano un’utopia e come tale, sullo schermo, hanno una propria preziosa fragilità fuori dal tempo. Scriveva Jacques Derrida in Il monolinguismo dell’altro, (2004): «Non ho che una lingua e non è la mia, la mia lingua “propria” è una lingua per me inassimilabile. La mia lingua, la sola che io mi intenda parlare e mi intenda nel parlare, è la lingua dell’altro».

© FCSF – Popoli, 1 febbraio 2013