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Cinema e Popoli
Luca Barnabé
Critico cinematografico
Infanzia clandestina
Gli anni bui, cupi e violenti della dittatura di Jorge Videla visti attraverso gli occhi del giovane Juan, ragazzino idealista e sensibile, figlio di rivoluzionari Montoneros, costretto a nascondersi continuamente, a cambiare nome, scuola e città. Espatria con la famiglia a Cuba, poi rientra in clandestinità nel 1979 con il falso nome di Ernesto Estrada (in omaggio al ribelle Che Guevara).

Il padre vuole continuare la propria lotta contro le autorità e perciò si finge impiegato in una fabbrica di cioccolato. In garage, tra scatole di cioccolatini e dolciumi si celano armi, volantini e un nascondiglio segreto in cui Juan/Ernesto dovrà rifugiarsi più volte insieme a Vicky, la sorellina di pochi mesi. Il ragazzo s’innamorerà della compagna di scuola Maria. Per lei sarebbe disposto anche a mandare all’aria la copertura dei genitori.

Ispirato a fatti realmente accaduti, applaudito a Cannes nel 2012, visto in anteprima italiana al Festival del cinema africano, d’Asia e America Latina, arriva finalmente in sala il 12 settembre Infanzia clandestina (Infancia clandestina), del regista argentino Benjamín Ávila.

È innanzitutto una storia d’amicizia e amore acerbo fra due ragazzini negli anni del regime militare argentino. Racconto di formazione, tenerezza e affetti in un periodo tragico e macchiato indelebilmente dal sangue. La violenza della dittatura si percepisce nella sua brutalità, benché fuori campo o vista attraverso il buco della serratura di un nascondiglio. Il giovane Juan guarda spesso gli eventi, la rivoluzione, la morte dei propri cari attraverso uno spioncino, una fessura nel muro o fra le travi di legno sbrecciate. In clandestinità. Vita e infanzia apparentemente negate. In realtà riesce a costruirsi una propria precaria e illusoria felicità. Prima della fine.

A eccezione di alcuni guizzi d’autore, la regia dell’ex documentarista argentino Ávila, qui alla prima opera di fiction, è piuttosto convenzionale, tradizionale e «trattenuta». Eppure Infanzia clandestina ha una propria grazia e riesce ad appassionare lo spettatore per quasi due ore. Merito dello sguardo ad altezza di bambino e della bravura del giovane Teo Gutiérrez Moreno, in grado di dare spessore, poesia e credibilità al proprio personaggio. Le figure secondarie che nel finale paiono come dimenticate non sono un difetto di sceneggiatura, ma un modo per trasmettere allo spettatore un frammento della frustrazione abissale generata dalla tragedia dei desaparecidos.

Suggestive anche le animazioni al rallentatore che ci mostrano come Juan vede ed esorcizza la tragedia. Fermo immagine buio, inquietante e (ir)reale sulla violenza. Il contrasto fra il giallo della pipì che il bambino non trattiene in un agguato dei militari e il rosso sangue di una vittima macchiano lo sguardo e la memoria ed emergono dal grigio nero dello sfondo. Nunca más.
© FCSF – Popoli, 1 giugno 2013