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Maurizio Ambrosini
Università di Milano, direttore della rivista Mondi migranti
L’imprenditoria degli immigrati più forte della crisi
Di questi tempi, non è frequente trovare notizie positive nelle pagine economiche. Ne peschiamo una tra i molti dati del Dossier immigrazione di Caritas-Migrantes: anche quest’anno, malgrado la crisi, sono aumentati in Italia i titolari d’impresa di origine immigrata: +19.712, che portano il totale a 228.540. Non che la recessione sia indolore, giacché i ritmi di crescita sono rallentati rispetto al periodo pre-crisi: siamo al 9,4%, contro i valori intorno al 20% raggiunti negli anni 2006-2007. Tuttavia in molte province, tra cui Milano, se il saldo tra imprese nate e cessate resta positivo, lo si deve alla vitalità economica degli immigrati. E non si tratta soltanto di cinesi: i primi in graduatoria sono in realtà i marocchini (37.574), seguiti dai romeni (35.060).
Nei mercati rionali, agli ambulanti italiani che chiudono si sostituiscono giovani commercianti immigrati. In tante periferie, alle saracinesche che si abbassano subentrano nuovi negozi dalle insegne esotiche. In parecchie città del Centro-Nord, andare a mangiare una pizza significa con molta probabilità imbattersi in un pizzaiolo egiziano o cinese. Ma anche il kebab è entrato a pieno titolo nelle abitudini alimentari dei giovani. Nell’edilizia minore, molti lavori sono affidati a muratori rumeni o albanesi. Il pacco che arriva via corriere ha buone probabilità di essere consegnato da un conducente peruviano.
Il fenomeno non è privo di ombre e di aspetti ambivalenti. Può rappresentare una strategia di precaria sopravvivenza, in assenza di un lavoro continuativo e del rischio di perdere il permesso di soggiorno. Può essere un lavoro dipendente mascherato, nelle costruzioni, nelle pulizie e in casi analoghi. Può nascondere lo sfruttamento di altri immigrati. Ma nel complesso è un indicatore di dinamismo. Parla di spirito di iniziativa, di volontà di miglioramento, di capacità di rispondere alle domande di una società avanzata: per esempio, introducendo nuovi prodotti, appagando il gusto di esotismo e di novità dei consumatori più curiosi. Oppure assecondando la nostalgia di casa dei propri connazionali. In molte città del mondo, sono proprio i negozi degli immigrati, tra l’altro spesso aperti fino a tardi, a ravvivare quartieri popolari, a proporre cibi insoliti, a diversificare con insegne e colori inusuali il paesaggio urbano.
A qualcuno però tutto questo non piace. A livello locale si diffondono ordinanze e regolamenti che intendono frenare l’espansione di kebab e ristoranti etnici, dopo aver colpito negli anni scorsi i phone center. Quando la novità fa rima con diversità, i difensori di vere o presunte tradizioni locali alzano la voce. Ma negli anni ’60, al Nord, anche la pizza era un cibo esotico.

© FCSF – Popoli, 1 dicembre 2011