Particolare interesse ha suscitato la decisione con la quale, il 6
maggio, la Corte Europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata,
respingendolo, sul ricorso
62804/13 presentato il 28 settembre 2013 da
Nivio Durisotto, nella sua qualità di padre di M.D., malata di una
malattia neurodegenerativa, il quale ricorreva contro la decisione del
tribunale di Udine con la quale era stata respinta la sua richiesta che
la figlia venisse curata con il metodo Stamina.
Era accaduto che, accogliendo una richiesta dell’ospedale di
Brescia, il tribunale aveva revocato una precedente autorizzazione in
quanto, a termini del decreto 24/2013, la terapia poteva essere
autorizzata solo se iniziata prima dell’entrata in vigore del decreto
stesso, circostanza che non si dava nel caso di specie.
Il genitore
si doleva del fatto che una simile decisione, impedendo la cura, fosse
una violazione del diritto alla vita di sua figlia (tutelato
dall’articolo 2 della Convenzione) nonché una indebita ingerenza nella
sua vita familiare (vietata dall’articolo 8 della Convenzione) e anche
un trattamento discriminatorio (vietato dall’articolo 14 della
Convenzione) tra pazienti che avevano iniziato la cura in differenti
momenti. Si doleva poi dell’inesistenza di un doppio grado di giudizio a
garanzia del suo reclamo.
La Corte ha respinto il ricorso,
sostanzialmente finendo con l’aderire alle valutazioni del tribunale
italiano, ma con una decisione che appare sbrigativa e discutibile per
alcuni suoi profili.
Se essa ha infatti affermato di non potere
sostituire la propria valutazione a quella effettuata dallo Stato nella
delicata materia della validità delle cure da somministrarsi a pazienti
che abbisognano di terapie ancora non pienamente sperimentate, ha poi
però convenuto che effettivamente la terapia è oggetto di contrastanti
opinioni scientifiche. Ma delle due l’una, vorremmo dire: se bisogna
tenere per buona l’opinione dello Stato italiano, perché in questa
materia la Corte ammette di non poter intervenire, a che giova ribadire
poi che la terapia non ha provata efficacia?
La Corte ha pure escluso
che potesse ravvisarsi discriminazione ai sensi dell’articolo 14 della
Convenzione nel semplice fatto che venisse autorizzata la prosecuzione
della terapia per i pazienti che l’avevano iniziata prima del decreto 24
del 2013. E’ pure possibile affermare che non sussistono gli estremi
formali della discriminazione, ma forse si poteva indagare meglio e
valutare la ratio a fondamento della prosecuzione della terapia per i
soggetti autorizzabili. La considerazione di questo profilo, infatti,
appariva necessaria, ci sembra, per analizzare adeguatamente la
questione della discriminazione.
Si ha insomma l’impressione che a
volte la Corte scarti di proposito certe complesse questioni per non
prendere posizione su dibattiti in corso. Lodevole prudenza, certamente,
forse troppa però.