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Cinema e Popoli
Luca Barnabé
Critico cinematografico
La gabbia dorata
Dalla miseria delle baracche dei quartieri più poveri del Guatemala, alla miseria di un macello statunitense pieno di sporcizia, sangue e frattaglie da pulire. Il viaggio dei migranti raccontato con empatia e pudore dall’esordiente Diego Quemada-Díez ha un inizio e una fine che in parte si somigliano, eppure tra i due c’è un abisso, non solo geografico, ma di dolore e violenza, illuminato da qualche raro lampo di bellezza: il sogno della neve mai vista prima.
Il regista, già assistente di Ken Loach, prende spunto da storie reali. Ha abitato per oltre due mesi in uno dei quartieri periferici di Mazatlán, in Messico, a pochi passi dai binari della ferrovia usata dai migranti per arrivare illegalmente negli Usa, stipati come bestiame sui tetti dei treni.

Narra di quattro adolescenti guatemaltechi: un maya del gruppo tzotzil, Chauk (Rodolfo Domínguez), il tormentato Juan (Brandon Lopez), il pacifico Samuel (Carlos Chajón) e infine Osvaldo che in realtà è una ragazza che si finge maschio per evitare ulteriori violenze. Nella prima scena si vede proprio Sara/Osvaldo (Karen Martínez) intrufolarsi in un bagno pubblico quasi a cielo aperto. Si taglia i capelli, si fascia il seno e indossa un berretto da baseball per nascondere lo sguardo.

Sognano l’«America», la gabbia dorata del titolo. Per arrivarci attraversano confini, vengono rimpatriati, non si scoraggiano e ripartono. L’on the road del giovane regista di origine spagnola è fatto di traiettorie negate, ostacolate e interrotte. I ragazzi sono angeli custodi gli uni degli altri. Incontrano la brutalità dei poliziotti di frontiera e dei delinquenti sfruttatori, ma anche l’aiuto di persone di passaggio e dei missionari di quelle terre.
La gabbia dorata (La jaula de oro), uscito in Italia a novembre e distribuito da Parthénos, è una delle migliori opere prime viste all’ultimo Festival di Cannes, vincitrice di due premi collaterali. Racchiude alcune ingenuità «tipiche» dell’opera prima: aggiunge troppi dettagli e «sottostorie» alla storia e, per quanto vere, troppe tragedie alla tragedia (lo schermo amplifica ogni cosa). Eppure sa colpire in maniera diretta e spesso potente al cuore. L’arrivo negli Stati Uniti prima dell’epilogo è destabilizzante, straordinario quanto atroce.

I protagonisti corrono lungo la natura sudamericana,
sulla lingua delle rotaie, lungo il corso di un fiume. Sembrano parte di un flusso del paesaggio stesso, parte di un tutto.
Per una volta vale riportare le note del pressbook che accompagna il film. Sono le parole del vescovo Giovanni Battista Scalabrini, fondatore degli scalabriniani: «L’emigrazione è legge di natura. Il mondo fisico come il mondo umano soggiacciono a questa forza che agita e mescola senza distruggere gli elementi della vita […] in modo da rinnovare in ogni istante il miracolo della creazione. Emigrano i semi sulle ali dei venti, emigrano le piante da continente a continente portate dalle correnti delle acque, emigrano gli uccelli e gli animali e, più di tutti, emigra l’uomo».





© FCSF - Popoli, 19 dicembre 2013