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Cinema e Popoli
Luca Barnabé
Critico cinematografico
La nostra vita

Comincia con una tragedia personale il nuovo film di Daniele Luchetti, autore di tante commedie come La scuola e Dillo con parole mie, ma anche del Portaborse «morettiano» e dell’intenso Mio fratello è figlio unico. La tragedia arriva subito, in una delle prime sequenze: muore la moglie del protagonista, l’operaio edile Claudietto (straordinario Elio Germano, premiato a Cannes ex aequo con Javier Bardem come migliore attore). Il ragazzo si ritrova solo con tre bambini. Reagisce al dolore mettendo la sua rabbia dentro al lavoro nero e sfruttando manodopera straniera. Prima del lutto aveva già cominciato a percorrere la strada tutta italiana dell’anomia. Dopo la morte del suo amore, Claudietto pare totalmente accecato dal comandamento: «I soldi veri li fanno solo i fiji de m…». E allora comincia a muoversi, a sua volta, sempre più nel ruolo. Per non bloccare i lavori in cantiere ha accettato di non denunciare la morte di una guardia notturna romena precipitata nel vuoto. In cambio del silenzio, però, ricatta il suo capo e lo costringe a subappaltargli un cantiere.
Il ragazzo non è irrimediabilmente cattivo, ma molto avido, mosso solo dal desiderio di denaro. La sua idea di felicità è ora quella di comprare tutto quello che può per i figli. Incarna l’italiano che alla fine assolviamo sempre, perché in fondo ha la battuta pronta e, a volte, un guizzo umano.
È interessante che Luchetti, dopo la parentesi tragica iniziale, torni progressivamente al registro della commedia, in cui i dialoghi sono infarciti di battute, in un romanesco divertente ed efficace. Siamo nel tempo in cui la «commedia all’italiana» pare morta e sepolta: oggi la nostra commedia è solo il calco della tv, «cinepacco» volto a celebrare non più solo l’arte d’arrangiarsi, ma di fregare il prossimo. Luchetti, invece, anche grazie agli sceneggiatori Rulli e Petraglia, riesce a tracciare una commedia lugubre sui mali dell’Italia contemporanea, spesso ridendo a denti stretti, ma senza assoluzioni, con la morte nel cuore e la chiara consapevolezza che se questo non è il peggiore dei mondi possibili di certo non si avvicina nemmeno lontanamente al migliore.
Nonostante alcune cadute di tono (Anima fragile di Vasco Rossi cantata a squarciagola al funerale, la recita scolastica eccessivamente «morettiana», la famiglia buona che risolve i problemi), La nostra vita è un’ottima fotografia di quello che è la penisola di oggi: costruita sui cadaveri degli operai sfruttati, italiani o più spesso extracomunitari, senza nemmeno più un nome, cadaveri nascosti come polvere sotto un tappeto. Inquadra la definitiva guerra fra poveri, l’imbarbarimento dei perdenti pasoliniani, la deriva dei poveri cristi. 

 

© FCSF – Popoli, 1 agosto 2010